sabato 6 giugno 2009

Saggi, recensioni e cronache

NADIA CAVALERA
Le parole ritrovate (recensione)
Umberto e Marco Brancia, Non avevo le parole, (Città aperta, 2006)
Marco Brancia, Per parlare con la gente" (tipoedizioni, 2008)

L’autismo «classico» è una malattia grave, difficilissima da gestire e a tutt’oggi molto invalidante.
Ma una sua variante, la cosiddetta Sindrome di Asperger, presenta possibilità di successo nella cura, nel senso che possono i soggetti interessati garantirsi una vita possibile, se solo si interviene prontamente, con sensibile intelligenza, pazienza, tenacia, e tanto amore.
Doti che hanno ampiamente dimostrato Umberto e Lorenza, genitori di Marco Brancia, un giovane uomo di trent’anni, che dopo svariate traversie terapeutiche (diagnosi errate con “tre sentenze di morte”, cure inappropriate), ma anche d’impatto sociale (meschine incomprensioni, chiusure razzistiche), oggi può guardare al suo futuro con prospettive più rassicuranti.
Certo per i genitori rimane sempre l’ansia del «dopo di noi». Ma intanto il peggio è passato, e ripercorrerlo non può che giovare a rafforzare i successi ottenuti e creare una solida base per proseguire avanti, e alla quale far riferimento in futuro per qualsiasi emergenza.
E’ questo lo spirito che probabilmente avrà mosso Umberto Brancia a scrivere col figlio Marco, in un pendant molto coinvolgente, “Non avevo le parole”. Titolo che è poi la spiegazione semplice data «a voce bassa», dal figlio, a percorso riabilitativo inoltrato, ad una domanda impellente e fino ad allora taciuta del padre: «perché parlavi così poco? ». Marco non parlava perché non aveva le parole. Viveva nel silenzio di un mondo tutto suo, parallelo a quello che gli passava davanti, senza riuscire ad agganciarlo in maniera stabile e proficua per costruire il ponte che gli permettesse di esprimere la sua identità, definendola. E solo nella prima adolescenza ha scoperto finalmente il mezzo di fuga dallo stato di isolamento: le parole. E se ne è innamorato.
Il libro, che, come recita il sottotitolo, è un «dialogo sulla malattia tra un padre e un figlio», è diviso in due parti.
Nella prima, Umberto, in forma epistolare, racconta al figlio la sua vicenda sin dalla nascita corredandola di tutte le possibili notizie utili a fissare l’immagine e il ruolo della famiglia e dei parenti più prossimi, tra i quali s’impone la figura del nonno paterno, con la sua giovialità, l’amore della conoscenza, la generosità, i racconti di guerra o sulle origini siculo-campane.
Nella seconda parte, è Marco stesso a scrivere i suoi ricordi relativi al periodo trascorso, arricchendoli in conclusione con suoi “Pensieri personali”. I primi scaturiti, con gioioso entusiasmo, dalla padronanza delle parole, dopo tante sofferenze per la loro mancanza e per l’incapacità di articolarle in suoni. Ora, finalmente possedute, tradotte in segni grafici, in un mix di impressioni ed espressioni, e flash atemporali, le utilizza per scolpire il suo paesaggio interiore, fatto di solitudine, (“sono sordo e chiuso dentro di me”), dominato costantemente da un muro che lo isola e protegge nel contempo. Di qui lo smarrimento (“cercavo sempre qualcosa che non sapevo”), e il naturale bisogno d’amore. Affidato al suono del vento, al volto di una bellezza mediterranea (“donna significa speranza, donna significa vita, /amore da assaporare tutti i giorni”); cercato nella dolcezza di un prato, nella caduta lieve delle foglie, nel silenzio, prigione e culla della voce che dentro lo guida “come una danza” . E’ sempre l’amore responsabile dell’immedesimazione con la natura, albero o lago o mare che sia.
Ma resta la madre la fonte primaria dei sentimenti. E quando dinanzi alle descrizioni/evocazioni, l’emozione lo coglie più forte, la prima similitudine o metafora che gli viene spontanea è quella che la vede protagonista. E la madre, più spesso nella variante lessicale di mamma, ricorre più volte in questi versi. Associata al vento “da saper toccare con le mani quando arriva” e che per lui è prima “come una mamma, come qualcosa di piacevole” per poi diventare, insieme al “profumo d’erba” e le carezze, proprio “una seconda madre”. Anche il silenzio, “la dolcezza, la tranquillità interiore”, è ascoltato da lui “tutti giorni come una seconda mamma”. La stessa poesia (“io la sento dentro come una seconda madre”), che lui vive anche “come una farfalla” e che, altrove, in una felicissima associazione di idee, gli fa assaporare il tempo che passa “come una volpe la mattina”. Alla ricerca di comprensione e sostegno (“ho bisogno dell’aiuto che mi porta fino te”), mentre attende il treno da non perdere (“il treno dev’essere un’occasione che devo prendere”), forte però della scoperta ed appropriazione infine della sua corporalità, decretata dalla poesia “Mio”: Mio è il corpo/ Mia la voce che ho quando parlo./Mio è tutto quello che ho. Miei sono gli occhi che guardano tutto.”.
Un testo importante questo (l’ho riportato integralmente) che prova indiscutibilmente l’avvenuto contatto tra i due mondi.
Marco non si limita solo a registrare ciò che vede, ma sa di essere lui a farlo. Elabora consapevolmente i dati. Interagisce finalmente.
Ne è piena conferma la successiva silloge di pensieri e poesie, “Per parlare con la gente” (Tipoedizioni, 2008). Dove, in 55 brevi testi continua a raccontarsi. Per riconoscersi meglio nella sua individualità (“mi guardo per parlarmi dentro”) e per mantenere il contatto comunicativo con gli altri, indispensabile alla sua crescita psicologica e comportamentale. Per consolidarlo e liberarlo da qualsiasi possibile difficoltà che potrebbe ancora provocargli (“se uno comunica,/spesso si sente in imbarazzo), per superare infine del tutto la fragilità sempre incombente e di cui si direbbe spia la stessa poesia proposta con titoli diversi (“Il Passaggio”, “Il passare degli anni”), quasi un retaggio della vecchia coazione a ripetere.
E resta sempre affascinato dal silenzio in cui meglio si riconosce (“il silenzio mi fa essere me stesso”), e che lo fa entrare in sintonia con la natura, sciogliendolo in un sorriso spontaneo (“quando sorrido penso alla natura /che è viva dentro di me”).
Ed ecco l’attenzione per gli alberi, per la pioggia che s’insinua la sera sui suoi “pensieri personali”, ma anche per le rose, per le stelle, incarnate nella metafora ancora una volta della madre. E soprattutto per il mare, elemento primitivo, forse equivalente emotivamente al silenzio, e che lui riconosce come sua componente essenziale che lo tenta ad intermittenze (“il mare è una parte che torna sempre in me”). Il mare è azzurro, “il colore della bellezza femminile”, è ammaliante. Ma lui si impone di resistergli in una affermazione che sembra piuttosto un autoconvincimento (“il mare è una parte di me che se ne sta andando”).
Ora Marco è proiettato verso una realtà più piena e soddisfacente (“ho voglia di sognare, di trovare un mondo diverso dal mio”). La indaga attentamente (“osservo tutto quello che mi sa accanto”), con grande interesse (“tutto mi attrae perché ho curiosità”), la rielabora sistematicamente (“i miei occhi sono il mio pensiero”), nutrendosi di musica e letture, anche ardite (“leggo quando parli”) e interrogandosi sul dolore, la perfezione, la pazzia, sull’insensibilità e stupidità degli uomini
In un percorso poetico autentico che, ne sono sicura, avrà in futuro, molte altre tappe.

Modena, agosto 2009

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