venerdì 1 gennaio 2010

BOLLETTARIO, Anno XXI, n. 61, Gennaio 2010

chiuso in redazione il 30 Aprile 2010

FARE POESIA IN SICILIA, a cura di Antonino Contiliano
Fare poesia in Sicilia
Lucio Zinna + saggio di A.C.
Giovanni Lombardo
Stefano Lanuzza
Mario Grasso
Franca Alaimo
Rolando Certa
Gianni Diecidue
Irene Marusso
Rino Marino
Nat Scammacca
Crescenzio Cane
Giovanni Commare + saggio di A.C.
Antonino Cremona
Carmelo Pirrera
Gianluca Spitalieri
Maria Attanasio  + saggio di M. A. su Vincenzo Consolo
Giuseppe Addamo
Ignazio Apolloni
Giorgia Stecher
Santo Calì
Luca Tumminello
Aldo Gerbino
Dino D'Erice
Emanuele Schembari
Tommaso Romano
Stefano Vilardo
Giuseppe Zagarrio

Nicola Di Maio
Gaetano Testa
Antonino Contiliano
Antonella Doria
LIBRI
RIVISTE

FARE POESIA IN SICILIA, di Antonino Contiliano

Esporre un quadro d’insieme della produzione poetica dei poeti siciliani non è compito che ci proponiamo in questo intervento. L’intento è più limitato, e la sua ampiezza è quella di uno scorcio a volo d’uccello. Vogliamo testimoniare piuttosto solo la vitalità della scrittura poetica siciliana offrendo in lettura testi di alcuni poeti che, nel recente passato e oggi (autori più giovani), in Sicilia, hanno tenuto duro e creduto nella poesia, praticato il suo linguaggio e le sue testualità. Una lingua intenta a dar corpo alle parole e riversarvi il “reale”, il concreto, l’immaginario e le realizzazioni con gli scarti e gli sfrangiamenti che ne fanno anche un sapere che si muove tra esperienza sensoriale e intellettuale, memoria corporea e mentale e costruzione simbolico-linguistica non esente da istanze ideologiche nostalgiche o d’avanguardia e sperimentali. Per relazionare così pensiero, vita, storia, teoria e prassi, si ingaggia (anche) un corpo a corpo con il passato, il presente e il futuro dell’Isola e dei soggetti tramite la parola e il simbolico della poesia nel crogiuolo del general intellect poetico, che è comune all’intera socialità degli uomini, e via via incrementatosi tra rotture e continuità e in mezzo a punti di vista diversi.
Un luogo che, come un vaso di Pandora, è potenza delle rovine della storia – che agiscono come un inconscio materiale vivente – e potenza di proiezioni e biforcazioni che, tese in avanti, decostruiscono e costruiscono, smontano e rimontano l’esperire personale e sociale all’interno di coordinate e scelte da cui nessuno può esimersi, se non al prezzo di subirle.
Si avvertiva (fin dall’inizio degli anni Sessanta) un clima di cambiamenti e turbolenze che metteva in discussione le vecchie certezze deterministiche, una crisi che interessava sotterraneamente, ma con vistosa forza inarrestabile e irreversibile, tutte le coordinate del sapere umanistico e scientifico finora funzionanti come guida. L'umanesimo determinista e positivista crollava: le scienze del mondo quanto-relativistico, della turbolenza (l’effetto farfalla di E. Lorenz e il sistema dei “tre corpi” – posizione, velocità, attrito – di E. Poincaré) e del caos deterministico mettevano in ginocchio i vecchi nessi causali e ideologici. Sul piano delle lettere, dell’arte e della poesia, sotto il taglio dell’ermeneutica del sospetto e del pensiero psico-filosofico-analitico di Lacan degli anni Sessanta e Settanta, veniva lanciato il trionfo del significante al posto del vecchio rapporto che subordinava il significante al significato nascosto come il manifesto al latente o la superficie al profondo
Il“bordello dello storicismo”, per dirla con Benjamin, andava in pezzi. Nessun nesso “positivo” legava il presente alle lotte del passato utopico e scientifico rivoluzionario, e la dialettica della sintesi e del superamento mostrava il suo pestare di macina di vento.
Occorreva, tuttavia, una nuova dialettica della ripresa e del risveglio come una “costellazione” di immagine e di pensiero in movimento che rompesse la continuità della storia fonologica del dominio e del controllo e mettesse a confronto e in cooperazione la pluralità dei soggetti con tutto il carico delle loro storie differenziate, verso un cammino sì imprevedibile, irreversibile, indecidibile nella catena lineare delle cause e degli effetti, ma non privo di immaginazione e logos alternativi.
Occorreva un risveglio e una ripresa sempre aperti a che le domande del presente, pur non dipendenti dal passato quanto il futuro dal presente, fossero comunque permeabili ad accogliere la decisione di un evento contingente quanto necessario di tagliare i tempi. L’impatto dirompente del qui ed ora dell’attualità (Jetzt) con la molteplicità delle direzioni e delle scelte, offerte dalle possibilità dei campi della storia temporale e determinata, imponeva pluralità e molteplicità a fronte dell’omogeneizzazione culturale e politica che, offerta dai poteri dominanti, veniva ancora riproposta con più virulenza nella ristrutturazione capitalistica bipartisan, che stava ridisegnando la storia e i suoi percorsi obbligati a partire dalla fine degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
La fine della seconda guerra mondiale, la spartizione del mondo in blocchi e la sua crisi, l’ideologia della coesistenza guerreggiata, gli indisturbati processi di decolonizzazione e ri-colonizzazione, di sviluppo liberal-capitalistico (pianificato o meno dallo Stato liberale o da quello del socialismo realizzato), e le disattese promesse, quelle che avrebbero garantito sviluppo, progresso, libertà, uguaglianza e pace (per tutti), avevano acceso di nuovo le micce del conflitto e dell’antagonismo sia presso le nuove generazioni che le vecchie e deluse. E a questo si rispondeva con repressioni e oppressione per affermare una ristrutturazione industriale post-industriale che utilizzava non più la vecchia materialità bensì l’immateriale della conoscenza, dei linguaggi, dei saperi e della comunicazione di potere accompagnandola con campagne di mistificazione e violenza indiscriminata. Basterebbe far mente locale per contare le tante guerre scatenate ad hoc dall’economia liberista delle catastrofi e dei disastri della scuola di Chicago di Friedmann (Naomi Klein, Shock economy), o a tutte le campagne culturali di appoggio dei chierici di turno.
In Sicilia e nel Meridione qualcosa cambiava. II nuovo meridionalismo e i siciliani, infatti, presa coscienza che il sottosviluppo non era una questione di fatalità storica o d’antropologia pessimista, ma la conseguenza di scelte mirate della classe al potere, cercavano di scrollarsi di dosso le maglie del recinto del neutralismo o del lasciar fare e cominciavano a guardare oltre; decollava una volontà di voler cambiare e incidere nella costruzione del proprio destino sfruttando quella dimensione della cultura, in senso lato, che una volta veniva considerata solo una sovrastruttura e determinata solo dalla struttura; cioè senza attività incisiva propria. Le cose non stavano più proprio così. I cambiamenti comportamentali e gli atteggiamenti nuovi erano anche il frutto di una capacità singola e collettiva di tradurre le convinzioni, le credenze e le conoscenze in linguaggi e azioni di potenza modificante le cose e Io stare insieme. Conoscenze e linguaggi si trasformavano in comportamenti, e tutto ciò non lasciava indenne il mondo della poesia.
La poesia dell’ambiente siciliano, per dirla con una analogia fisico-matematica, diventò così un sistema dinamico e oscillatorio a più corpi (E. Poincaré era stato uno dei primi a interessarsi delle oscillazioni di un pendolo con tre variabili: posizione, velocità e attrito): un pendolo poetico che oscillava nello spazio delle fasi delle coscienze inquiete con tutto il carico interagente degli attrattori strani; ossia un sistema le cui variabili cambiavano continuamente attorno a un punto mobile grazie ai gradi di libertà strutturanti e rappresentate dalle varie correnti di pensiero, alle finalità, alla geografia storico-culturale di corredo di ogni soggetto, alla consapevolezza del momento, alle azioni e le traiettorie multidirezionali e imprevedibili che ciascuno poteva imprimere.
Ognuno vedeva il mondo, l’azione poetica e il linguaggio poetico d’uso in base ai propri presupposti. Si cercava, però, di convivere e di cooperare; ognuno interagiva con la propria eterogeneità o la singolare identità di cui era portatore e soggetto attivo.
il Sud, con i poeti di quella generazione, scrive Giuseppe Zagarrio, “tende a perdersi come luogo mitopoietico a sé stante, e a combaciare col più generale ‘esserci’ o con il territorio più ampio dello ‘sperimentale’. Lo scarto, a questo punto diventa d’obbligo; e di fatto si registra ampiamente in un tabulario già fitto di operazioni, che collaborano intensamente con le ricerche delle nostre avanguardie concettuali e linguistiche più avanzate, soprattutto si muovono, a livello di oltranza sperimentale, insieme se non addirittura alla testa delle ricerche più attive, perfino di quelle più spericolate del nostro territorio nazionale” .
Un crogiuolo e una processualità poetici – non meno che storici, culturali e politici – che, nell’enunciazione della polisemia e della complessità dell’aseità semantica della poesia stessa, confliggono con le linee della beanza e della cattura di certo retaggio dell’ieri e di certa ansietà della modernità pseudo umanistica ideal-spiritualistica o anche psico-soggettiva, e dell’oggi derealizzato e deideologizzato. Un intersecarsi di correnti, nella poesia dei siciliani, dove l’io liricizzante e dell’intimità esistenziale non è stato sicuramente di secondaria importanza rispetto alla esternazione della rabbia e della denuncia sociale e collettiva, che, in certi momenti, ha dovuto fare i conti con l’avanguardia poetica sia sul piano del linguaggio che dell’ideologia. Dimensioni entrambe presenti sull’Isola dei poeti. E tuttavia, della produzione poetica siciliana, generalmente, è possibile dire, anche oggi, che non s’acqueta né ai moduli correnti, né alla pseudo trasparenza della comunicazione individuale e sociale dell’industria culturale dell’ex società fordista e della cultura come industria dell’immateriale del neocapitalismo cognitivo e biopolitico contemporaneo. Il nuovo paradigma produttivo e competitivo cioè che, sfruttando la creatività della po(i)esis o del fare dell’arte come forza produttiva, vuole mettere “a valore” i linguaggi, i saperi e la stessa comunicazione, non escluse le strategie della retorica poetica e il lavoro vivo, singolare e comune-cooperativo, catturandoli alla fonte della stessa potenza creativa della soggettività e dei suoi processi di soggettivazione.
Nell’Isola, e a Sud, accanto alla pluralità tematica e delle forme espressive, nonché ad una complementarità di linguaggi e registri, che vivacizzavano la dibattuta questione del far poesia, del come e del perché, spuntava così una poesia della sperimentazione, dell’avanguardia impegnata (certamente problematica e sul piano della teoria non sempre sufficientemente chiarita) e del dibattito sulla politicizzazione dell’estetica e della sua lexis. Il mondo reale, seppur problematicamente e dinamicamente, al Sud manteneva, però, il suo rapporto con il/i soggetto/i e il linguaggio espressivo-comunicativo in vista di un’identità oppositivo-critica e di una alternativa al sistema dominante con l’occhio fermo alla scienza, al rinnovo del linguaggio, alla tradizione violata e all’utopia trainante.
Il tempo della storia degli uomini e delle cose, del resto, è instabile e in permanente trasformazione ristrutturante, sì che il ritmo degli eventi e della loro organizzazione non sempre segue le aspettative e le utopie degli uomini. Ma la voce del singolo, poeta o meno, poeta siciliano o meno, è sempre la voce del singolo che parla con la voce del gruppo (Lucien Goldman), come la parole non si esprime e non comunica senza la langue, la lingua maturata dalla socialità comune (e al suo interno). Un comune che, in quanto crogiuolo comune, è il general intellect che mette a disposizione il comune dei vari saperi e linguaggi che vi emergono con l’acclusa complessità dei processi di soggettivazione e oggettivazione storico-determinata, che ivi si intersecano e intrecciano. Ciò, naturalmente, non vuol dire che le categorie, pur ampie (di tipo sociologico o altro schema), bastino a esaurirne il ventaglio delle mutazioni che coinvolgono il mondo della poesia. Il ritmo della poesia – come un complesso intreccio di diversi (eterogenei) elementi e livelli – ne simula, simultaneamente, simmetrie, asimmetrie e dissimmetrie, e ne è una variazione irriducibile e una amplificazione; e così è anche per i testi dei singoli poeti siciliani.
Giuseppe Zagarrio (Febbre, furore e fiele, 1983), nel parlare del linguaggio e delle categorie dei poeti siciliani tra il radicale, il composito e la sintesi, ha scritto che gli approcci rigidi sono fuorvianti. Nell’interpretazione, inevitabili forzature potrebbero viziare la lettura degli autori e tradirne il mondo. Nel “continente dostojevskijano”, che è la Sicilia, il magma è così fluido e incandescente che “dovunque un cenno diverso o una diversa sfumatura di comportamento possono costituire, tra poeta e poeta, un abisso vero e proprio di misura non commensurabile” (p. 273).
E noi non promettiamo più di quanto possiamo. Limitiamo la veduta. Indichiamo alcuni poeti siciliani (operanti e/o non operanti sull’Isola) che hanno scritto in lingua nazionale, e alcuni dei quali hanno scritto pure in lingua siciliana.
La natura dello spazio poetico dei poeti siciliani, quindi, non è piana. Questo spazio, alquanto non euclideo, “frattalizzato” e non lineare, si muove tra l’archetipo del luogo, le vicende della sua geografia culturale, l’ambiente socio-economico e la temporalità storica presente. Un quadro, affatto idilliaco, dove la poesia dell’io e del noi (piuttosto frastagliati) non è mancata di “scuole” (nel passato, la “siciliana” di Federico II; nel recente passato, la così detta “scuola di Palermo”- Michele Perriera, Gaetano Testa, Roberto Di Marco; autori, fra l’altro, che, in un primo momento, con il palermitano Crescenzio Cane avevano dato vita al gruppo “Antigruppo ’68”), né di movimenti e nomi che hanno detto e scritto la poesia anche oltre i confini dell’Isola.
Ripetere gli stessi itinerari, già indicati e tracciati da altri, non giova. I loro nomi – dalla scuola siciliana di Federico II ad oggi – già sono stati catalogati come i libri in una biblioteca. Ognuno può consultare quando crede e vuole. Una ricognizione completa ed esaustiva, del resto, sarebbe opera impossibile per chiunque. I nostri limiti – di energia, tempo, spazio, etc.– premono poi prudenza (“ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, Wittgenstein). Tuttavia è possibile gettare uno sguardo da una finestra (forse uno spiraglio).
La parola della poesia, non meno di qualsiasi altra finestra, è sempre infatti un punto di vista. Un punto di osservazione, analisi, valutazioni e decisioni est-etico-politiche e culturali che contemporaneamente includono/escludono; e che, in ogni modo, ci riguarda/no sia come singolarità che come parte di una collettività che interagisce e sceglie un sentiero e un orientamento rispetto a un altro.
Così, in questa nostra passeggiata, seguendo/inseguendo una logica che non è quella dell’antologia ma di una po(i)eto-logia di assaggio, apriamo la finestra – da cui preferiamo guardare alcuni poeti siciliani proponendone anche qualche testualità poetica indicativa – come una membrana che filtra. Un passaggio che li fa interagire più che con un “ismo” particolare con il punto di vista che sceglie la cornice del linguaggio poetico stesso come un general intellect po(i)etico comune e, tra contraddizioni e conflitti vecchi e nuovi, generato dalle forze social-storiche e dai loro rapporti asimmetrici. Un “modello” che non è solo forma, figura e materiali poetici, ma un insieme di insiemi articolati. Una pluralità o un fermento di assunzioni esplicite o presupposte (principi e metodologie, modi d’essere e di fare lineare e/o non lineare – sentire, agire (con la parola e la scrittura), temi, motivi, interiorità, esteriorità, ideologia, immaginario e immaginazione, verbalità, iconicità, sonorità, gestualità, intimità, ironia, allegoria…–) che è propria della/alla meteorologia poetica, e che ogni poeta patisce e agisce contemporaneamente. E ognuno ne è attraversato sia consapevolmente che inconsapevolmente.
Le varie rivoluzioni “epistemologiche” o “epistemiche” po(i)etiche, che, al mondo dell’arte e della poesia, in modi diversi, hanno posto attenzione, prestato supporto e cercatovi verità non altrimenti certificabili, l’“evidenze imponderabili” (Wittgenstein), con il loro meta-phorein allegorico, né universale né assoluto – sempre all’interno delle condizioni materiali e storiche in corso e operanti, e variamente orientando –, hanno dato indicazioni e orientamenti al poeta siciliano, nel proprio habitat, per scelte poetiche che hanno messo in subbuglio il dato e l’acquiescenza. Del resto il linguaggio della poesia non ha certo di mira la quiete del pensiero e dell’azione.
Così, Gianni Diecidue, poeta dell’Antigruppo siciliano, nel 1972, nel bel mezzo delle discussioni che coinvolgevano archeologie e avanguardie letterarie, riferendosi al “significato della nostra poesia”, sceglieva e scriveva: “ Insomma noi pensiamo di essere calati nell’ordine di idee di Quasimodo quando scrive.: ‘Ma un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una terra, in un tempo esatto, definito politicamente. E poesia è libertà e verità di quel tempo e non modulazioni astratte del sentimento. La nostra terra è la Sicilia, ma potrebbe essere qualsiasi altra plaga di questo mondo, che abbia lo stesso dolore e la stessa contraddizione, uguale sofferenza e uguali frustrazioni, lo stesso anelito incolpevole di rinnovarsi nelle forme e nei modi di vita. Noi avvertiamo questa realtà e questa condizione e la cantiamo con quei modi forme stili linguaggio e via di seguito che sono nostri, ma che tutti ritrovano nella comprensione e nell’interesse” (“Impegno 70, II, 4/7, Gennaio-Dicembre, 1972, p. 39).
Non meno del tempo, ricordando W. Benjamin, la poesia dei siciliani, allora, si connota per un suo esserci sia in re quanto nelle potenzialità ancora non realizzate ma possibili di rinnovamento. Una volontà di “rinnovarsi” senza perdere, nell’istante kairologico o nelle circostanze propizie, il contatto con il proprio sé storico e connesso all’inter-esse del vivere ed essere-con gli altri. Perché il passato quanto il presente, per i poeti siciliani, è una contemporaneità del general intellect poetico sociale e collettivo che tiene attivi il tempo e la storia dei suoi accadimenti; il magma del divenire comune in cui si incontrano soggettivazioni, trasformazioni e processi di liberazione innescati anche con l’azione della poesia come “lingua minore” che disaggrega gli stereotipi della lingua standard e del senso comune (le cristallizzazioni di senso tanto care a chi esercita il potere). Il potere che utilizza, per opprimere e sfruttare, anche i canali della letteratura e della poesia di mercato e di intrattenimento, quanto pacificante e consolatoria per i buoni e rassicuranti sentimenti d’appartenenza cui affida il comando dell’identificazione securitaria. Un riconoscimento però incompatibile, ormai, con la coscienza del nuovo meridione che rifiuta le etichettazioni dell’antropologia positivistica e razzista della cultura borghese-capitalistica italiana, compresa quella dell’attuale neo-liberismo turbo-capitalistico.
Questa assunzione, naturalmente, è un non voler escludere le forze materiali e storico-determinate che sommuovono la poesia, compresa la poesia dei siciliani, e il linguaggio stesso del general intellect poetico che, pur essendo trasversale, non esula dalle stesse determinazioni eterogenee e in conflitto che lo modellano come tale, mentre non assicurano nessuna forza di stabilità permanente o naturalizzata.
L’universo stesso espandendosi si modifica e modificandosi si espande intrecciando senza soluzione di continuità le polarità della discontinuità, della continuità e l’articolarsi degli stessi processi intersecatisi messi in moto. E tutte le parti in gioco risentono dell’“effetto farfalla” come in un circuito di retroazione dinamica permanente e contestuale. Universale è solo la differenza, ha scritto qualcuno. Le sue variazioni comunque sono legate alle condizioni materiali e immateriali dei soggetti e delle “identità” situate che, grazie alla circolazione dei linguaggi e dei modelli culturali, attraversati dalla determinazione di molte determinazioni, si de-territorializzano come parti sottoposte al travaglio della ri-collocazione e ri-temporalizzazione. Parte come quantum-ondulatorio di un campo, la cui natura si caratterizza come rapporto di dipendenza reciproca tra l’ambiente e gli elementi che lo fanno, sì che l’autonomia della parte, paradossalmente, richiede una relazione di reciprocità con l’eteronomia e la pluralità del suo darsi ramificato. Paul Klee, agganciandosi a Goethe, ricorda che le opere, e crediamo non solo quelle dell’arte, procedono ramificandosi tra ritmo e aritmia, diversificandosi.
Le forme e i modelli, che entrano nel linguaggio della poesia, così come avviene, del resto, per altre branche (branchie) del sapere e della scienza, non sono infatti né uni, né univoci, né sigillati sotto vuoto. Il vuoto stesso, fra l’altro, è una forma di energia che mette in circolo altre possibilità di vita e di forme, e l’arte e la poesia ne possono fare sempre il luogo di una possibile rappresentazione della mancanza.
Così la circolazione della poesia dei poeti siciliani, sia all’interno del proprio territorio (regionale e nazionale), sia fuori confine, è andata per il mondo con la sua produzione storico-geografica “peculiare”, espandendosi con il verbale e gli aggiornamenti del tempo, intrecciando verbale e non verbale, lirica e meno lirica, sociale e politico, tradizione e innovazione, laboratorio e sperimentazione, etc.
Una circolazione che ha goduto delle retroazioni dei vari saperi e linguaggi, mettendo a profitto il concreto di quel detto che, alla fine del secolo scorso, dopo la bancarotta delle filosofie della storia, diceva che arrivati al fondo c’è sempre da grattare e scavare. E la poesia è ancora come un terreno di scavo, di interrogazione e di potenza autonoma di lavoro vivo in quanto linguaggio di costruzioni espressive alternative, ma anche di sabotaggio e sovversione che “spaesano” criticamente la comunicazione semantico-politica e culturale accreditata. Un terreno di scavo e di analisi, naturalmente non indipendente dal contesto, specie oggi in cui l’intero universo dei linguaggi e della comunicazione artistico-po(i)etica, per la sua potenza creativo-politica e produttiva, è stato messo a lavoro e sotto la misura del valore di scambio capitalistico come forza produttiva, e in cui le scienze umane (filosofia, scienze dell’astrazione e dell’immaginazione congetturale, psicoanalisi, la letteratura, l’arte e la poesia) cercano confronti e spunti di ricerca, approfondimenti e vie d’uscita.
Raggiunti i limiti delle possibilità verbali, e simultaneamente la certezza dell’incertezza, allora si è scavato nella matrice del general intellect poetico d’avanguardia e impegno, e anche in Sicilia, per esempio, così si è sperimentato e provato l’impossibile! Quell’impossibile che – come ha sottolineato Francesco Battiato al Convegno di Studi su La poesia del secondo Novecento Siciliano, (Ragusa, 1997) citando i nomi di Terminelli e Apolloni (due poeti palermitani) che gravitavano nell’avanguardia impegnata dell’Antigruppo siciliano; poi hanno creato Intergruppo Palermo e Singlossia – voleva coniugare sperimentazione linguistica e anarchismo antiborghese: “uno sperimentalismo diverso dai problemi dell’avanguardia, che applica la trasgressione sul codice linguistico, con stretti contatti con una ideologia anti-borghese e anarco-libertaria” .
Ignazio Apolloni, pubblicando Poesie impossibili (Intergruppo, Palermo, 1982), – riportandovi a mo’ di introduzione l’inventario dei nomi impiegati da A. Spatola (“Verso la poesia totale”) per significare la poesia sperimentale, – scriveva che la poesia sperimentale, oltre che “visiva, concreta, aleatoria…fonetica, grafica…ideografica…cibernetica, semeiotica…”, da oggi, “può essere anche ‘IMPOSSIBILE’.”
Quasi una sintonia (dal lato della poesia sperimentale di Ignazio Apolloni) con il “reale” come “impossibile” del pensiero psico-filosofico di Jacques Lacan, e il suo soggetto barrato “$  a” (soggetto diviso): un soggetto inseparabile da un pur minimo scarto – “a”: il plus de jouir del corpo finora ignorato dal plus-valore marxiano, o il “sintomo/sinthome” che, come l’allegorico della poesia, rinvia a un reale di senso oltre il principio di piacere e il principio di realtà – che l’Io non può mai ridurre: perché c’è un quid dove non ha posto il cogito cartesiano – “penso dove non sono e sono dove non penso” (J. Lacan) – che non è categorizzabile.
Uno dei testi ironici di “poesie impossibili”, di Ignazio Apolloni, ha infatti per oggetto l’impossibilità di dividere l’Io. E qui il verbale ha proprio la funzione di nota di supporto al visivo, e ciò con tutto il suo carico di senso e di significanza che deborda qualsiasi senso comune e linguaggio standard. E perde il tradizionale ruolo di preminenza significativa e di senso, ma non la sua presenza (quasi) complementare e di riutilizzo in forma figurativa, o visuale e ironico-critica.



Vira Fabra (moglie di Apolloni, oltre che artista e avveduto occhio critico aduso a cogliere i nessi e le relazioni dei saperi in movimento, senza perdere l’amore per Cartesio o la razionalità) annota che, “cadute le ideologie”, la “malizia di Apolloni sta, invece, nell’evidenziare che soltanto un’estetica dell’ironia può, attivandosi, sopravvivere e svilupparsi: Alienare la morte […] è la tesi trasgressiva riversata nella singlossia che, sostenuta da rapporti umani d’uso e non da codici segreti, vuole farsi soprattutto tensione concettuale” . E continua, sempre parlando della “ricerca” di Ignazio Apolloni, che una “ delle traiettorie […], nel cerchio dell’impossibile, ‘ attraversamento e tensione dello scientifico, è utilizzo della mente bicamerale per l’invenzione di un indistruttibile rifugio contro la pioggia atomica. Dal suo gioco linguistico traspare, inoltre, il piacere di disattendere per evitare che si compongano nuovi baluardi mentali e indurre piuttosto a schernirli” .

Ma Francesco Battiato, nel suo intervento al Convegno di studi su La poesia siciliana del Secondo Novecento Siciliano, i cui atti sono stati pubblicati a cura del poeta ragusano Emanuele Schembari (Ediz. Libroitaliano, Ragusa, 1997) – mentre riconosceva all’Antigruppo siciliano di essere “in anticipo rispetto a certe attività che saranno riprese poi a Roma, a Milano” con le azioni della “poesia/gestualità, al ciclostilato, alla performance, alla poesia in pubblico o in piazza” (p. 30) – prendendo spunto dalla categoria del “radicale” linguistico di Giuseppe Zagarrio (operante a Firenze, ma agrigentino nato a Ravanusa), sosteneva che l’impegno sperimentale linguistico aveva altri referenti quali, per esempio, Edoardo Cacciatore, Emilio Isgrò, Armando Patti, Stefano Lanuzza, Jolanda Insana, Maria Attanasio, etc. Della poetessa Maria Attanasio, inclusa nella linea linguistico-sperimentale del “composito” – operazioni più aperte (rispetto alla linea del “radicale” o dell’ideologico), in quanto sensibili “alle varie urgenze delle categorie isolane e dunque alle più varie spinte della ricerca poetica che può esprimerle” –, lo stesso Zagarrio scrive che le tre dimensioni del tempo (presente, passato e futuro) sono filtrate poeticamente come “rigetto, nostalgia, utopia”. Più precisamente come un tempo inavvertito o senza storia e nello stile di un “avventuroso, barocco romanzo di metafore o di fiorito liberty […] in una soluzione di assolutezze adialettiche o ermetico/parmenidee” .
Autori il cui “rigorismo etico”, scrive Battiato, per far risaltare la coscienza siciliana, si ribella alla tradizione linguistica cercando una sperimentazione che si “traduce in un linguaggio di netta rimozione, rispetto ad ogni oggetto e comportamento esaustivo e conformista, radicale, dunque e radicalmente sorretto su tutta una sola sopravalenza espressiva” (p. 29).
Del resto le cristallizzazioni ideologico-dogmatiche non si addicono a una filosofia e a una poesia che vuole fare i conti con la storia, il presente e il futuro come materialità e “immaterialità” instabili e non autosufficienti del divenire, il quale si presenta montaggio e smontaggio continuo multiarticolato. Il divenire, nei suoi processi razionali, immaginari, simbolici e sintomali, tesi a significare teoricamente e praticamente il “reale”, tra continuità, discontinuità e fratture, mescola costanti e variazioni con debiti che a volte si misurano anche con la paradossalità non meno che con le coerenze. Sì che il tessuto e i testi sono esposti sia alle innovazioni quanto a reinterpretazioni e funzione-invenzioni, così come, nel reale delle cose, i vuoti non sono meno concreti dei pieni; e gli elementi e i motivi – che la po(i)esis articola tra differenze, mancanze, comunanza, contatti e fughe –, rispetto al contesto posizionato e globale del fare poesia, riaggregandosi alla poesia danno nuovo vigore e spazi di ulteriore significanza non catturabile dal potere. I discorsi sulla poesia, non bisogna dimenticarlo, non sono i discorsi della poesia; né tanto meno quanto detto o dicibile sulla/dalla poesia dei siciliani, in Sicilia, può esaurirne o subordinarne il divenire identità nel tempo che si muove sub specie temporis globale, migrante e plurale.
Né tanto meno questo vuol dire non tener conto dei legami che la poesia ha con il tempo della storia materiale della terra in cui vive e si esercita. Locale e non locale sia il territorio che tiene la/e relazione/i, il suo sapere/potere di destabilizzazione – rispetto al sapere/potere totalizzante delle ideologie e delle forze produttive e di governo del sistema, che struttura e attraversa la vita e l’esistenza di una regione – ci dice infatti il quanto-qualitativo non formalizzabile del “reale”, o disciplinabile dalla teoria o dalla pratica significante delle forze di potere di turno, e di quanto nella poesia e nel suo linguaggio trovi cittadinanza la resistenza e il senso scomodi e necessari.
E necessari anche per rifiutare e attaccare quanto oggi il capitalismo immateriale, senza esclusioni geografiche e storiche, gioca per vincere la partita mortale dell’appiattimento delle identità plurali (dei singoli o di una comunità) e dell’immaginazione sull’eterno presente del godimento identificante il desiderio, l’utopia e il futuro con il consumo della merce e dei suoi feticci (vera identità degli indiscernibili) che propone l’intero tempo della vita combaciante con il tempo della produzione e riproduzione capitalistica.

Hannah Arendt, che della produzione e del pensiero di alcuni poeti del Novecento si è occupata con cognizione, ricordava che ciò che pensano, dicono, scrivono e fanno i poeti ci deve interessare. I loro temi, le idee e il sentire che mettono sul tappeto dei loro versi, le scelte e gli schieramenti che fanno e indicano riguardano la vita di tutti. E non a caso, fra gli altri poeti che amava, non ha ignorato né E. Pound, né B. Brecht. Due dei poeti del Novecento che hanno scelto una diversa ideologia progettante come “passione per il reale”: il fascismo (Pound) e il socialismo reale (Brecht).
La produzione poetica dei siciliani, nel suo itinerario, ha scritto e comunicato senza eludere temi e idee di sorta. Archetipi, terra e memoria, cielo e metafisica, pace e guerra, finito e infinito, amore e odio, privato e pubblico, vita e morte, gioco e impegno, ironia e parodia, satira e grottesco, osceno e sacro, divertente e dissacrante… hanno trovato sia la vita del monolinguismo che del pluri/multilinguismo, la multimedialità. Stili e poetiche, scarti e ibridazioni, in questa area del Mediterraneo, fuori sesto il tempo degli ultimi decenni del XX secolo, più che mai lacerato da contraddizioni vecchie e nuove, hanno guidato i poeti siciliani che, isolati o in gruppo, comunque, hanno girato la manovella dei loro versi e controversi per spedirli al mondo con poesia.
Lo “spettro” della poesia, per dirla con Marx e Derrida, con il suo “effetto visiera”, è stato un demone che ha alimentato la poetica di siciliana tempra con la semiosfera del comune general intellect poetico, dal cui raggio d’azione non è stata esclusa né la responsabilità etico-politica, né quella della cura estetica e antagonista, anche se gli esiti poetici hanno raggiunto livelli diversi e qualità poetica non uniforme. Del resto, nel proprio dell’aseità del linguaggio della poesia, turbolenze e variazioni (all’interno del general intellect poetico comune) non mancano di essere giudicate e interpretate con modelli diversi, se le soggettivazioni filtrano e restituiscono le motivazioni con con-figurazioni differenziate, e le oggettivazioni si presentano pure come costellazioni e non sistemi chiusi.
Questo comune general intellect poetico ha fecondato l’humus dei poeti siciliani non meno d’altri, e non foss’altro che per le continue mescolanze di soggetti e culture (fenici, greci, latini, arabi, francesi, spagnoli…), che, a velocità diverse, come in una storia di vasi comunicanti, e per eventi non sempre determinabili con necessità causale rettilinea, hanno caratterizzato la storia dei siciliani come un fluido che ha irrorato le vene di temperature e pressioni diverse di elegia, nostalgia, rabbia, “futurismo” sperimentazione e impegno. Il flusso poetico, mescolando corde linguistiche e non (analogia con le corde –: “la seria, la civile, la pazza” – del pirandelliano Ciampa nell’opera Berretto a Sonagli), ha girato come un clima; e il clinamen, con le sue turbolenze e obliquità, nei punti di biforcazione, ha optato sia per l’ordine che per il “dis-ordine” socio-linguistico o per un ordine che, nelle mutate condizioni storiche, non può rimanere immutato. La parola scritta e orale dei poeti siciliani, all’incrocio, così si è intrecciata sposando tematiche, idee e forme che sono comuni o a più o a tutti come un bene comune e un cum-finis. Un cum-finis e/o un “bene comune”, si può dire, che non è mai rimasto isolato entro le pareti domestiche. Nella contestualizzazione, infatti, ha mantenuto i contatti rinnovandosi con quanto si coagulava a livello europeo e mondiale.
In altre parole, questo bene comune, che è il linguaggio della poesia, ha circolato permeando i confini dell’Isola. E l’interesse per la poesia e la letteratura, in Sicilia,

nel suo aspetto più moderno e rilevante è legato al deter¬minarsi di condizioni politiche e culturali che hanno indotto anche un profondo mutamento nella storia della critica. […] Lo studio delle diverse e specifiche storie ha acquistato sta¬tuto e dignità nel momento in cui la realtà italiana emersa dal “miracolo economico” si mostrò segnata dalle profonde e gravi differenziazioni e divaricazioni di sempre. E si definiva contemporaneamente il metodo per studiare quelle storie, un metodo fondato sulla loro contestualizzazione, sul rilevamento delle più articolate e mosse forme del loro intersecarsi e confrontarsi e dialettizzarsi, in rapporto a una totalità non solo italiana, ma eu¬ropea (per effetto di altri e contemporanei ampliamenti di oriz¬zonte). Piuttosto però che la dimensione geo-storica, direi che si fosse conquistata una dimensione storica plurima: nazionale e insieme sia subnazionale che sovranazionale.
E in questo quadro che si definiscono l’ambito, la finalità e il metodo dello studio dei siciliani, che si rapporta alle problematiche storiche di rilevanza generale solo se si tratta di scrittori (pro¬satori e poeti certo) nazionali ed europei o, meglio, di scrittori visti in una prospettiva nazionale ed europea. Bisognerà proporsi la comprensione di cosa le loro opere dicano di una realtà gene¬rale, non solo italiana, ma a partire da problematiche proprie della realtà regionale e guardando secondo l’angolatura di quella particolare realtà. Si vorrà capire cosa e come vede e conosce ed esprime lo scrittore siciliano a partire dalla dimensione regionale, allorché questa diviene metafora della totalità. Dopo forse si potrà dire cosa sia la sicilianità nelle scritture dei siciliani.

A dispetto di quanti, nel clima della nuova avanguardia italiana del Gruppo 63 e nell’aria di quella che sarà chiamata “ala cinese”, dissero che la poesia dei siciliani, per esempio quella dell’Antigruppo siciliano, non avrebbe attraversato lo Stretto di Messina, la poesia dei siciliani invece (anche quando in Italia sembrava che la parola poetica si fosse innamorata di se stessa e destinata a lamentarsi nella chiusa dell’intimismo e nel proprio recinto territoriale) era viva, produttiva e, compresa quella di questi poeti dell’Antigruppo siciliano, varcava i confini territoriali regionali e nazionali, e si provava, pure, tra crisi e coscienza della stessa, nei confronti e nelle discussioni di indirizzi e tendenze. Oltre a produrre sfruttando le linee tradizionali o misurandosi con quanto di sperimentazione era in corso nel mondo (il non verbale, il sonoro, l’elettronico, etc.), continuava anche a discutere su linee, canoni e a coltivare scambi, interni ed esterni, entrando così nella circolazione aperta dei dibattiti in corso.
Un giro cioè che metteva l’insularità poetica in contatto e comunicazione attiva con l’esterno peninsulare e l’altro europeo e non europeo. Non un’operazione campanilistica, dunque, in tempi in cui era/è di moda (impera/va) la chiusura dei “leghismi” e dell’apartheid.
D’altronde, il popolo siciliano, che, unitamente alla sua cultura, è la sintesi storica di “mille razze” e delle risonanze degli incroci storico-culturali in itinere, non può chiudersi nel proprio isolamento sebbene viva su un’Isola. L’Isola è uno dei punti d’osser¬vazione relativo com’è ogni e ciascuna galassia in un universo che si espande e diviene, e diviene con divenire diversi.
Partire o restare, chiudersi o aprirsi nella ricerca e nella scrittura non è che una questio¬ne di mobile sosta del pensiero e dell’immaginazione che si tra-ducono in/con azioni condizionate da corporeità esistenziali e politiche concrete. Un “migrare” che non può essere reciso dall’ambiente in cui si vive, e che si anima di instabilità orientata ai contatti e all’esplorazione. L’ambiente, peraltro, è sempre dell’or¬dine del non equilibrio, ossia della complessità storico-spazio-tempora¬le che, soggetta a interazione del locale con il non locale, modifica il modo di pensare, conoscere, agire e scrivere.
Così, per esempio, da Mazara del Vallo, l’infaticabile poeta Rolando Certa comunicava con i giovani poeti della sconfitta Grecia dei colonnelli, con l’Europa dell’Est e il Mediterraneo arabo in un momento in cui la politica dei blocchi e dell’equilibrio del terrore entrava in crisi e rimetteva in discussione le sorti del locale in relazione con quello che si decideva a livello più generale. Se a Comiso si installava una base missilistica e si militarizzava l’intero territorio siciliano, le sorti erano legate alle ristrutturazioni più ampie e fuori Isola/Italia. I contatti con il mondo ellenico e arabo erano visti, pure, però, nell’ottica del confrontare il presente inaccettabile e combattivo con il meglio di quella cultura politica per trovarvi alimento in vista della costruzione di un mondo nuovo. I contatti con quelle culture avevano un significato tutt’altro che nostalgico. Allora la poesia siciliana dell’Antigruppo cercò, profeticamente, fratellanza e alleanza con i poeti di altri contesti lavorando per un “neoimpegno” umanistico e plurale, e volto allo sviluppo della democrazia nella libertà, senza per questo sottovalutare il peso delle vecchie e nuove contraddizioni che si profilavano all’orizzonte.


La rivista “Impegno70” – ideata e diretta dal poeta antigruppo Rolando Certa, divenuta poi “Impegno80” –, gli “Incontri fra i popoli del Mediterraneo” e le iniziative antologiche che intraprese, compresa un’antologia “Poeti per la Pace”, furono occasione di scambi antesignani e di circolazione della poesia dei siciliani presso altre realtà. Sperimentandosi ancora con le corde della poesia liricamente coniugata al privato, si declinava pure, con spirito critico, al pubblico e al civile. E, in questo situarsi, la poesia siciliana non abbandona completamente le aspettative di fondo (e possibili) anche della cultura umanistica, che intanto si apriva alla pluralità delle voci siciliane e non siciliane. Si demitizzava scoprendo l’umanesimo della “differenza” sia come irriducibilità al Medesimo e all’Uno, sia come “singolarità”, singolarizzazione; e si apriva all’intero Mediterraneo e oltre a partire dagli incontri con/fra gli underground e dei Sud del mondo. Amore, impegno e nuovo umanesimo, dunque. Quell’umanesimo che, dietro le spinte del ’68, sia all’Est come anche all’Ovest, chiedeva anche una nuova democrazia radicale e dal “volto umano”, e una revisione dei rapporti tra i popoli per affrontare unitariamente i veri mali – la guerra, la povertà, la fame… – del secolo.


L’umanesimo critico del neoimpegno siciliano chiamava cioè per una convivenza dialetticamente rispettosa delle identità singolari degli individui, delle comunità e dei diritti; e libera dagli inquinamenti di comandi imperiali e mafiosi, variamente propensi (questi) a usare violenza e guerre colonizzanti territori e menti. L’istanza del neoimpegno praticava la poesia civile attraverso il rigore etico che, eroso il divieto dei blocchi ideologistici, attraversava la comune espressione linguisitico-poetica. Perché se il blocco capitalistico, tra il dire e il fare, mostrava crepe, che laceravano insopportabilmente i valori della libertà, dell’uguaglianza e della pace, non meno vistosi erano i fallimenti dolorosi e tragici del blocco dell’Est soviettistico alla deriva.
Maturo, fra gli intellettuali e la gente comune, era ormai il convincimento che nessuna società perfetta fosse la corrispondente traduzione pratica di un progetto anticipato a tavolino. Le varie rivoluzioni erano lì a testimoniare di quanto il cammino non fosse lineare e progressivo, ma un divenire immanente in cui la contingenza teneva in scacco sempre gli apparati categoriali e politici organici, nonostante diritto e normalizzazione cercassero di contenere le eresie e le conflittualità troppo spinte.
Le analisi e gli scritti di Marx erano, poi, ancora lì a ricordarci che il comunismo non era il conformarsi ad un ideale perfetto o a un atto di delibera chicchessia, ma un movimento che trasforma lo stato di cose presente. E Freud, senza eludere la “volontà cieca” della vita di Nietzsche, nella “tavola dei dieci comandamenti” della religione ebraico-cristiana, metteva allo scoperto l’assurdo del comandamento dell’amore per il prossimo (l’amore non si ottiene a comando), rivelando la forza della pulsione di morte – il vuoto: das ding – “oltre il principio di piacere” che attanaglia gli uomini come male radicale. La scuola di pensiero francese – Michel Foucault, Gilles Deleuze, Jacques Derrida e Jacques Lacan – obbligava a riflettere sulla stretta connessione del pensiero materialistico marxiano con quello freudiano sia sul versante della produzione materiale, culturale-politica, nonché sulle modifiche che toccavano gli stessi rapporti di classe e la/o stessa/o funzione/ruolo dell’intellettuale, che era decaduto dalla sua funzione guida. La circolazione e la distribuzione della ricchezza – secondo Lacan – non poteva tener più disgiunto il plus-jouir freudiano dal plus-valore marxiano, e il ruolo nuovo dell’intellettuale – secondo le analisi della scuola francese – non poteva più essere pensato e gestito come portatore di coscienza; doveva essere condotto, invece, sia localmente che globalmente, come parte paritetica in lotta con gli oppressi e con una comune azione di sabotaggio avente di mira i messaggi simbolico-politici e linguistici reificanti e mistificanti. L’estetica, nel senso più ampio dell’aisthesis, non era più etichettabile come ricerca dell’autonomia del bello – armonia, proporzione, fuga nel sublime – nell’opera, ma modalità del pensiero e di relazione politica soggettivante che riguardava la “differenza” e il “differenziale” dei corpi e del desiderio antisistema nella rilevanza poetica del “sensibile”; o, come scriverebbe Deleuze, la “potenza di pensiero che lo abita prima del pensiero” (Gilles Deleuze, Logica della sensazione), e cui nessuno può sottrarsi. Il complesso “blocco” dell’aisthesis è abitato da affetti e valori, oltre che dal pensiero.

Nel 1982, per le edizioni di “Impegno 80” (Mazara del Vallo), a cura di Rolando Certa, veniva così pubblicata l’antologia Poeti per la pace con i testi di ben quaranta (40) autori . I poeti raccolti non erano solo siciliani. E ciò a testimonianza anche del fatto che, per stare insieme e costruire insieme, i poeti non avevano bisogno di particolari mistificazioni ideologiche finalizzate a stabilire rapporti di gerarchia e subordinazione, né tanto meno a rinunciare al laboratorio poetico e agli aspetti soggettivi della poesia per gettarsi esclusivamente sul versante dell’engagement socio-politico di partito o di sistema come un dogma e una fede indiscutibile. Sempre nel 1982, a Mazara del Vallo, nel convegno “Incontri fra i popoli del Mediterraneo: Poeti per la pace”, il poeta spagnolo Rafael Alberti, in un suo intervento, con chiarezza, disse che le due cose non si escludono: “Insomma, io mi considero un poeta nella piazza, un poeta nella strada. Ciò non vuol dire che io rifugga dalla poesia sperimentale e, in definitiva, dalla poesia soggettiva. Ne ho fatta molta. Ho libri famosi come “Sobre los àngeles” scritti in quel modo. Ma credo che in que¬sto momento terribile del mondo, mentre viviamo tra il garofano e la spada, credo che in questo momento il poeta è obbligato a essere la coscienza del suo popolo. E con la poesia si può fare tanto. Si posso¬no commuovere le montagne, si può far ribellare la gente e i poeti oggi non muoiono nel loro letto. I poeti vengono fucilati”.

Ma anche, e prima, Lautréamont, non ignorando le difficoltà della funzione della poesia e del ruolo dei poeti, aveva pur detto che non possono considerarsi estranei alla coscienza della “tribù”: “La missione della poesia è difficile. La poesia non s’immischia negli eventi politici, nel modo in cui si governa un popolo, non allude ai periodi storici, ai colpi di stato, ai regicidi, agli intrighi di corte. Non parla delle lotte che l’uomo impegna, in via eccezionale, con se stesso, con le proprie passioni. Scopre le leggi che fanno vivere la politica teorica, la pace universale, le confutazioni di Machiavelli, i corni di cui si compongono le opere di Proudhon, la psicologia dell’umanità. Un poeta deve essere più utile di qualsiasi altro cittadino della sua tribù”.
Nel 1984, a Timişoara (Romania), l’editrice Facla, con una introduzione di Rolando Certa e la traduzione di Eta Boeriu, pubblicava Trinacria. Poeti Siciliani Contemporanei. Una rosa di ben quarantuno (41) nomi .

Nel 1989, su idea e proposta di chi scrive, in sintonia con il poeta spagnolo Justo Jorge Padrón, EquívalencÍas (Revista Internacional de Poesía, Madrid, 1989) pubblicava i testi di tredici (13) poeti siciliani . Queste poesie, accompagnate da una postfazione di Nicolò Messina, venivano pubblicate sulla rivista madrilena sia in lingua italiana che tradotti in lingua spagnola e inglese.
Nel 1993, a cura di Naum Kitanovski, le edizioni Rivista Macedone-Serate di Poesia di Struga, pubblicava una Antologia della Poesia Italiana Contemporanea. Insieme ai nomi di Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Mario Luzi, Nelo Risi, Vittorio Sereni, Pier Paolo Pasolini, Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli…, in questa antologia figurano, oltre il nome di Salvatore Quasimodo, anche i nomi di poeti siciliani più giovani quali Bruno Rombi, Rolando Certa, Carmelo Pirrera, Lucio Zinna, Antonino Contiliano.
Da Palermo venivano (e vi confluivano) esperienze più complesse e articolate. È appena il caso di dire (le vicende sono più che note) che la Capitale siciliana era stata la sede degli incontri che hanno visto nascere la realtà del Gruppo 63 e del Gruppo Beta. Non sono mancate, e non mancano, attività editoriali e riviste.
Tra le riviste e periodici, e solo per citarne alcuni, per l’area messinese ricordiamo il periodico trimestrale (1981) “Prometeo” (animatori Mario Rappazzo - Vincenzo Mascaro). Per l’area palermitana ricordiamo: (animatore Ignazio Apolloni) Antigruppo Palermo, Intergruppo, Singlossia; L'Achenio (supplemento di “Sintesi”, direttore responsabile Aldo Gerbino: il poeta che filtra e analizza con intelligenza vigile e, scrive Zagarrio nel suo Febbre, furore e fiele, con “linguaggio puntuto e arguto”); Arenaria (animatore Lucio Zinna: il poeta della “sintesi” che rovescia il senso comune e consolatorio per farsi voce autorevole dell’“isolitudine”, la categoria creativa che fa dell’Isola apertura e mondo ); “Issimo” è periodico (attivo) di promozione culturale fondato e diretto da Carmelo Pirrera (sensibilità poetica inquieta e sottile che scandaglia il mondo percepito con un continuo colloquio lirico modulato in toni vibranti, decisi); “Spiritualità & Letteratura” è una rivista diretta da Tommaso Romano (il poeta viandante che passa dalla mitica isola Diamascien al topos dell’eremo, la dimora operosa della contemplazione come “contempl-attiva”). Per l’area trapanese, ricordiamo il quadrimestrale (1982) “Libera Università di Trapani” (periodico del polo universitario trapanese, ma pubblicazione non più attiva) e “Spiragli” (1989), la rivista – trimestrale di arte letteratura e scienze – nata a Marsala e diretta da Salvatore Vecchio.
Negli anni Ottanta e Novanta, a Palermo, la casa editrice “Il Vertice” (animatore Carmelo Pirrera), pubblicava Poeti siciliani contemporanei (Palermo, 1974) – un’antologia di ben quarantuno (41) poeti –, e Gli eredi del sole (Palermo, 1987), un “rapporto” di ben 105 nomi (distinguendo tra “Citazioni, Scuole, Tendenze, I futuristi siciliani, l’Antigruppo, il Gruppo Beta, etc.”).

A Ragusa, curatore Emanuele Schembari, Utopia Edizione (Ragusa, 1987) pubblicava Poeti Contemporanei della Provincia di Ragusa, un’antologia (regionale) di ventisei (26) voci della poesia contemporanea iblea.
Sempre a Ragusa, nel 1997, a cura dello stesso poeta Emanuele Schembari, e per i tipi di Libroitaliano, venivano pubblicati gli atti del Convegno di studi su La poesia del secondo Novecento Siciliano. Il convegno, iniziativa del Comune di Ragusa-Centro Servizi Culturali, faceva il punto sulla poesia siciliana in lingua e in dialetto.
In questa sede, oltre al già citato Francesco Battiato (Esiste un’avanguardia poetica siciliana?), a Giuliano Manacorda (conclusioni), intervenivano altri nomi: Giuseppe Amoroso (Poeti iblei contemporanei), Salvatore Di Marco (Linee generali di sviluppo della poesia dialettale nel secondo Novecento nella Sicilia Occidentale), Aldo Gerbino (Poesia e lavoro), Rino Giacone (I poeti dialettali nella Sicilia orientale), Ella Imbalzano (La poesia di Gesualdo Bufalino), Giovanni Occhipinti (Il Gruppo 63 e l’Antigruppo ’68. Due culture a confronto nella Sicilia contadina della diaspora e del mito magno-greco), Emanuele Schembari (Le correnti nella poesia siciliana del dopoguerra e i gradi isolati) e Lucio Zinna (La dimensione insulare e il connotato del “restare-partire”).
L’intervento di Schembari, spaziando tra correnti poetiche e autori più o meno isolati o parte di gruppi e movimenti, descrive bene l’apertura e la problematicità della poesia siciliana. Fra le due guerre, chiarisce Schembari, il poeta siciliano, sia che viva in Sicilia o che operi e viva lontano, è attraversato e immerso nelle problematiche nazionali, europee e internazionali. Ma i movimenti, le riviste e le presunte scuole sono segnati anche da polemiche “non sempre esclusivamente letterarie”. Tuttavia emerge, egualmente, un dialogo animato e controverso tra i sostenitori della “poesia più formale (legata alla tradizione tecnico-linguistica del primo Novecento)”, gli animatori di “quella più concreta dell’attualità espressionistica, che viene considerata anche impegnata, socialmente e politicamente” (p. 119). In qualche caso i due generi coesistono. E tra questi non mancano autori, isolati o meno, che al privato e al lirico della tradizione prestano la loro scrittura poetica verseggiando, contemporaneamente, temi specifici, per esempio, quali l’emigrazione curata da Stefano Vilardo (Caltanissetta) con la sua raccolta dal titolo emblematico Tutti dicono Germania Germania (due edizioni: la prima con Garzanti, 1975; la seconda: Sellerio, 2007).
E così, tra i poeti (Quasimodo, Dolci, Cattafi, Buttitta, Piccolo…) toccati dal sociale, dal popolare e dialettale, dal metafisico, dal barocco, dal surrealismo, dall’onirismo, dal futurismo, dalla vena psicoanalitica et alia, troviamo anche i nomi dello sperimentalismo e quelli della fascia di coscienze in crisi o variamente attivi, che si misurano con le varie urgenze (formali e/o non formali) e riconducibili sia all’Antigruppo siciliano o ad altre posizioni (interne ed esterne) che si connotano per altre variabili del vivere e del mondo socio-politico e culturale in subbuglio.
Tra gli altri poeti, sono i nomi di Vincenzo Di Maria, Giuseppe Zagarrio, Gianni Diecidue, Nat Scammacca, Irene Marusso, Stefano Vilardo, Gino Crescimone, Antonino Cremona, Giuseppe Addamo e Sebastiano Addamo, Fiore Torrisi, Giovanni Occhipinti, Lucio Zinna, Aldo Gerbino, Carmelo Pirrera e il catanese Mario Grasso.
A Catania, non dissimilmente, Mario Grasso è altra figura di rilievo. Poeta pluriversato – in grado di utilizzare i toni della solennità e quelli del dramma, della parodia più elastica –, narratore, scrittore di teatro, saggista, traduttore, pubblicista, è fondatore (1979) e direttore della rivista “Lunario nuovo”, e per le edizioni Prova d’Autore ha incarico di consulente letterario. È un intellettuale che non chiude nel provincialismo isolano né la sua produzione, né, in genere, quella della poesia dei siciliani. Attivo protagonista e infaticabile promotore, oltre ad avere coltivato e aperto verso l’area sovietica del teorico e critico Jurij Lotman, e promosso traduzioni dall’ucraino e dal russo delle opere di Taras Sevcenko, è anche animatore di incontri, seminari e dibattiti sulla
poesia dei siciliani.

Lunario nuovo, scrive Giuliano Manacorda (Storia della letteratura italiana contemporanea- 1940-1996, vol. 2, p. 884), ha una sigla non provinciale e tenta di creare una “fitta rete fra poeti e scrittori puntando più sulla bontà dei testi che sul rispetto di presupposti teorici d’altronde mai esplicitati…”
Mario Grasso, altresì, è stato protagonista attivo anche delle pubblicazioni di “Scritture letterarie, cronache e altre approssimazioni di Sicilia”. Lavori che sono stati riuniti e raccolti nel libro “ARRIVEDERCI A SORTINO” (Prova d’Autore, CT) degli anni 1997 e 1999, rispettivamente a cura di Sebastiano Terranova e di Luigi Ingaliso.
E, facendo riferimento alla nostra esperienza e testimonianza diretta, e più recente, con la Casa editrice Prova d’Autore (2001), e sotto gli auspici della Provincia Regionale di Palermo, il poeta Mario Grasso dava alle stampe Volti e Pagine di Sicilia (nomi appartenenti all’Ottocento e al Novecento). L’opera contiene due sezioni di lavoro: Elisio (poeti noti e già trapassati), Lavori in corso (poeti in vita e in itinere), e conta i nomi di centotrentotto (138) poeti . Il volume, a cura di Simona Noto, porta la presentazione di Nicolò Mineo e un tratteggio storico –Tra sacro e profano (una breve sintesi della recente esperienza poetica siciliana tra l’acquisito e la movimentazione dei tempi) – sottofirmato con sigla “s.n.”.
Nella sfera della poesia, la poesia siciliana, metaforicamente e allegoricamente – ferma l’autonomia e la dinamica della dimensione linguistico-temporale che interagisce con la contestualità degli eventi –, si può dire che ha lo stesso rapporto che la materia ha con lo spazio nel modello fisico-cosmologico einsteniano (la teoria della relatività ristretta e generale) e le sue modifiche. Come la materia curva lo spazio e lo spazio dice alla materia come muoversi, così è per la poesia siciliana nella relazione storica che si evolve tra continuità e discontinuità. Se la sfera della poesia si modifica, quella di chi scrive in Sicilia non ignora i cambiamenti e vi interagisce. E di questa capacità continua discontinua (vitalità e creatività) della poesia dei siciliani, nel tempo, ne hanno dato testimonianza i dibattiti, gli incontri, il dialogo e la discussione che hanno dato vita anche a fratture e diviso gli stessi compagni di strada.
E ora, solo per cenno e stralcio, vogliamo ripescare quanto di questa “storia”, pluralmente variegata e mossa, hanno scritto gli anni Settanta e Ottanta. Una scrittura poetica che nelle divergenze, in ogni modo, non ha creato nel modo di pensare e fare poesia stacchi netti tra tradizione e innovazione, tra il passato e il presente. Tra i siciliani, il riuso del lirico tradizionale viveva accanto al nuovo nel clima delle avanguardie che discutevano, anche, e ancora a Palermo (1984), su “Il senso della letteratura”, e in tempi di dichiarata post-modernità.
Stilemi, stereotipi, pathos e voglia di capire, aprire e orientarsi nel presente, proiettandosi in avanti, vanno insieme e con minore o maggiore consapevolezza teorica e pratica di scrittura che, nel lancio della post-modernità, si trovava a discutere di letteratura di consumo e di ricerca. La memoria delle parole non perdeva la storia dei suoi semi e la potenza che poteva riattualizzarli, così come il riferimento ai modelli, variamente connotati, non si perdeva per strada ma si modificava, e richiamava riadattandole, possibilmente, vecchie chiavi teoriche.
Così, scrive ancora Giuliano Manacorda (Storia della letteratura italiana contemporanea- 1940-1996, vol. 2, p. 880), il dibattito su “Il senso della letteratura” (Palermo 1984), secondo l’intervento d’apertura di Leonetti, che era inteso a superare la “perdita di certezza nell’opera letteraria e artistica…e il disagio per l’uso generico dei termini ‘sperimentalismo’ e ‘avanguardia’”, si nutriva di un “imprevedibile e inconscio crocianesimo”. Esso finiva per fermarsi su una “definizione” che, attribuendo la forma al moderno e il sentimento al postmoderno, stagliava il senso della letteratura (nell’oggi) come un “dare forma al sentimento” per rispondere ai lettori della nuova società, sebbene poeti come Sanguineti e Raboni, nel¬la trasparenza della teoria, de¬gli strumenti, degli obiettivi del¬la ricerca politico-culturale, rispettivamente, parlavano di sabotag¬gio rispetto alla tradizione e di trasgressione comuni¬cativa.

In Sicilia, tra gli anni Settanta e Ottanta, intorno al letterario, al poetico e al “disagio” rispetto alla tradizione, alla sfida del presente postmoderno e dei fermenti che interessavano il fare e il dire della poesia, c’erano anche luoghi per incontri, confronti e prese di posizione variamente qualificantesi.
Per gli anni Settanta, il riferimento (fra gli altri possibili) è la rivista “Impegno 70” (Anno V-VI e VII, n. 19/27, Mazara del Vallo, Ottobre 1975 / Dicembre 1977), il periodico che, a proposito della poesia siciliana Antigruppo, ospitò un dibattito sulle sue anime. il periodico, fondato dal poeta mazarese Rolando Certa dell’Antigruppo siciliano, fu anche il luogo dei contatti dei poeti siciliani con l’area fiorentina di “Quartiere”, “Quasi”, “Salvo Imprevisti”, “CollettivoR” –; ma fu anche il luogo del fermento linguistico-ideologico, politico e culturale che con Nat Scammacca tentò anche di delineare una poetica nei noti ventun (21) punti di una possibile poetica populista antigruppo. Il movimento, infatti, non fu alieno dalle discussioni e dalle prese di posizione sull’uso dell’enunciazione espressivo-poetica nella forma del verso (libero o meno), della prosa, del colloquiale-discorsivo e quotidiano, o sull’opportunità o meno di certe scelte sperimentali o tradizionali, quanto sui toni elegiaci, sentimentali, nostalgici o meno confacenti con lo spirito “rivoluzionario” del gruppo antigruppo.
Per gli anni Ottanta, il riferimento è la tavola rotonda organizzata da “Carte Siciliane” (Mazzarò-Taormina, Hotel Villa S. Andrea-Sala Oliviero, 9 agosto 1985). I suoi interventi, poi, sono stati raccolti e pubblicati nel volume “ARRIVERDERCI A SORTINO” (Prova d’Autore, Catania, 1999). In questa sede, in sintesi, si indagava la “situazione letteraria regionale” per una possibile “tendenza” o “frequenza” poetica che, eventualmente, potesse essere definita “linea” o “scuola” (anticipiamo: né l’una né l’altra).
Nel primo caso (anni Settanta), il dibattito che ci preme ricordare è quello su “L’Antigruppo e l’underground”. I partecipanti furono: Armida Marasco, Mariella Bettarini, Gilberto Finzi, Domenico Cara, Lucio Zinna e Alberto Barbata.
Nel secondo caso (anni Ottanta), i protagonisti del dibattito della tavola rotonda furono: Ignazio Buttitta, Giuseppe Di Giacomo, Carmela Fratantonio, Mario Grasso, Jolanda Insana, Stefano Lanuzza, Enzo Leopardi, Vincenzo Leotta, Angelo Maugeri, Elio Tavilla.

Sull’Antigruppo e l’underground, Armida Marasco scrive che, all’indomani dello scioglimento del “Gruppo 63” e dell’imperversare dello sperimentali¬smo di maniera, l’Antigruppo è stato l’esperienza letteraria più significativa (per quasi 10 anni), e un laboratorio di rottura e di innovazione anche sul piano linguistico-formale, cui si è affiancato, pure, un impegno ideologico determinante, legato al contesto socio-geo-storico (non solo isolano), e una memoria non dimentica dei temi esistenziali e umani che la modernità ha lasciato in eredità a tutti, non esclusi i poeti insulari.

Il merito indubbiamente va alla volontà degli “antigruppisti” a non farsi guidare da alcun capo carismatico; ad essere degli anarchici libertari in modo autentico che ha consentito di non costringere in spazi ristretti o peggio, ben definiti, le esperienze eterogenee di ogni componente (canalizzazione che spesso ha autolimitato i gruppi d’avanguardia sia la storica che la recente); ad agire non solo in funzione alternativa alla cultura ufficiale ma a tentare la diffusione della cultura, partendo dal primo livello, quello dell’informazione a favore degli strati sociali rite¬nuti meno idonei per recepire tale tipo di problematica.
Considerata da quest’angolo di visuale, l’operazione cultu¬rale dell’Antigruppo si innesta nell’underground.
[…]
La punta più avanzata dell’underground italiano per me è rappresentata dall’Antigruppo siciliano, tenendo comunque sem¬pre presenti le diverse realtà storiche, sociali, politiche ed eco¬nomiche che l’hanno determinato. L’area siciliana è da collocarsi nella fascia delle “minoranze culturali periferiche” non per pro¬pria scelta ma per circostanze riferibili soprattutto a fattori geografico-politici. Non voglio con questo riproporre il problema nei termini della sfruttatissima “questione meridionale”, ormai divenuta etichetta e che ha alimentato la tendenza all’autocommiserazione, al passivismo, al fatalismo di certa letteratura che si è autodefinita realista e non lo era, piuttosto inserirlo in quello di più vaste proporzioni e che chiamerei delle “periferie mondiali”.
In sostanza quest’arte, questa politica di contestazione-informazione-controinformazione la ritroviamo in zone che non hanno un nord ben definito al quale contrapporsi (come in Italia) ma delle “maggioranze” ideologiche e mi riferisco, per fare degli esempi, alla Scozia, all’Ungheria, alla Cecoslovacchia, alle nume¬rose minoranze americane, australiane del Nuovo Galles, ecc.
Delle tecniche comuni all'underground mondiale, l’Antigrup¬po siciliano ha preso la informazione-controinformazione attuata con i ciclostilati, le autoedizioni, i recitals popolari in piazza, nel¬le fabbriche, nei cantieri navali, le poesie murali e su cartelloni disposti per i marciapiedi delle vie.
La validità dell’opera di promozione culturale e politica dell’Antigruppo, oltre che in questi modi, che ritengo efficaci ed essenziali, è da ricercarsi in un aspetto del tutto nuovo il quale ha consentito di superare gli inevitabili rischi del provincialismo culturale, per aver affrontato temi nella produzione artistica, notevole anche per quantità, che non tralasciano ma superano i confini connessi alle problematiche locali, per spaziare in quelle nazionali ed andare oltre nel tentativo di unificazione delle ricerche di quella che ho chiamato la “periferia mondiale”.
Mi riferisco alle molteplici iniziative produttivistiche di gemellaggio tra i poeti siciliani e gli scozzesi, gli americani, gli un¬gheresi, i greci, i francesi, ecc.

Se l’Antigruppo è stato una minoranza di poeti agguerriti e ribelli, che hanno dato vita a un movimento e ad una tendenza “anti”, più che a una scuola o ad una linea precisa (vista l’etorogeneità dei soggetti, il diverso bagaglio culturale politico e gli umori che alimentavano il magma poetico siciliano), tuttavia è possibile dire che gli “anti” hanno evitato i rischi del provincialismo e delle chiusure. La stessa sicilitudine (“categoria” che qualificò la poesia di Crescenzio Cane, e termine che coniò lo stesso poeta palermitano), seppure altrove non si sia mancato di giocarla con l’emarginazione vittimistica e la carica delle offese patriottiche, correla il movimento ad un’area di reazione più vasta che non ad assunzioni antropo-psicologiche entro cui in molti vorrebbero rinchiudere definendo la tipicità del siciliano. La poetica della sicilitudine, del palermitano Crescenzio Cane, infatti, aveva nella memoria della parola anche il senso delle lotte e dell’impegno dei poeti della “negritudine” (“Orfeo negro”), di cui J. P. Sartre si faceva interprete e portavoce con una ricca e puntuale analisi critica introduttiva. Una comune reazione attiva della poesia alla politica coloniale della moderna borghesia capitalistica che ha “colonizzato”, in tempi e modalità diverse, le due terre (siciliana e africana) e le loro lingue.
Non solo, dunque, un partire da una propria identità offesa, siciliana o africana, ma, soprattutto, una presa di coscienza e un antagonismo che, in poesia, si presentava come ribellione della lingua contro la logica di rapina capitalistica e sulla base di un chiara adesione al pensiero marxista, sebbene veicolato nelle forme dell’ortodossia ormai messa in discussione; un no contro l’espropriazione delle ricchezze materiali, l’oppressione e l’attentato continuo alla lingua e alla cultura da parte del capitale e dei capitalisti colonizzatori, che, in tempi di “post-fordismo”, hanno eletto a forza e mezzo di produzione i linguaggi, i saperi, la comunicazione e la stessa soggettività individualistica come terreno di elezione per la riproduzione della società di classe.
Come è sempre stato nella tradizione laboratoriale e di ricerca della poesia dei siciliani, per i temi affrontati artisticamente e poeticamente, nel complesso non indifferente per qualità, e per gli stessi innesti modali messi in opera, questi poeti si trovavano oltre i con¬fini ristretti delle problematiche locali. Come avviene nel moto delle correnti, che non conoscono barriere impermeabili, hanno così curato la relazione e la connessione – visto il comune clima di sommovimento di quegli anni (contestazione, “blocchi” in crisi e ristrutturazione capitalistica) – con le ricerche, le forme, i modi e i risultati all’interno di quel campo energetico unitario che è stata l’insorgenza della “periferia mondiale”.
Quella periferia mondiale che si è trovata unita nel denunciare le logiche di guerra, di sfruttamento, di colonizzazione delle coscienze, delle culture e delle lingue, e che in Sicilia si è pronunciata, poeticamente, per esempio, con “Poeti per la pace” (Edizioni Impegno 80, Mazara del Vallo, 1982, e a cura di Rolando Certa). L’antologia “Poeti per la pace”, nata in Sicilia, non era però (né negli intenti, nello spirito e nella fattualità) solo siciliana o di soli siciliani; era voce e scrittura di autori siciliani, italiani e non. In essa si coagulava il pacifico sentire del dissenso mondiale fino a sciogliersi nell’assoluto del nome: “Poeti”! Solo con il nome di poeti, e nessun’altra determinazione geografica, ideologica, razziale o altra qualità veniva predicata della parola “Poeti”, se non quella di essere tutti determinati a spendersi per la pace e la fine di ogni guerra. E Rafael Alberti, presente nell’antologia “Poeti per la pace”, in un suo discorso, tenuto a Mazara del Vallo (“Incontri fra i popoli del Mediterraneo”, 1982), aveva detto che, nei momenti in cui i popoli venivano chiamati più allo scontro che alla convivenza o alla pace, obbligo del poeta era lasciare l’intimità lirico-soggettiva e far parlare la poesia con la voce dell’impegno etico-politico dell’interesse collettivo trasversale, lì dove, invece, l’economia e la cultura neocapitalistica esasperava il più gretto individualismo competitivo in funzione dell’esclusione e dell’eliminazione dei non integrati.
Queste connessioni trans-locali, variamente “temperate”, smentiscono così il localismo tipico che certa antropologia fuorviante vuole cucire addosso alla poesia dei siciliani, e la innestano, con le necessarie variazioni del caso, dovute alla particolarità geo-storica e politica dell’Isola (presenza amalgamata di più strati culturali), nella rete dei movimenti europei e mondiali.
Del resto, per altre vie, le connessioni trans-geografiche sono messe in chiaro anche in ambienti poetici che non necessariamente hanno sposato tout court il “polemos” sbrigliato e la rottura innovativa del grido di/in piazza dell’Antigruppo siciliano. Perché nel movimento dell’Antigruppo siciliano, il “polemos” e l’engagement, vista l’eterogeneità dei soggetti, delle creatività e delle storie individuali, hanno conosciuto anche la co-esistenza di poeti le cui corde suonavano anche il barocco e il neo-barocco, evidenziandolo nell’enunciazione fortemente qualificata linguisticamente. E qui l’antagonismo dell’engagement si trova nell’impasto espressionistico del verso e della sua sintassi. Un miscela esplosiva che si è fatta carico anche di dirci che la verità è plurale (non è una), e che la polis poetico-politica dei siciliani, capace di recuperare e distillare linguaggi e categorie diversi, non è disposta all’acquiescenza o alla rinuncia del conflitto, né tanto meno lasciare la cura del linguaggio alla padronanza tecnologica, come un copyright, dei cosiddetti maestri del segno verbale e/o non verbale oltre lo Stretto di Messina.
Una per tutte, l’espressionismo ribelle e linguisticamente ricco di “misture” lessicali e sintattico-espressive del poeta Santo Calì (non solo in Crescenzio Cane – “il grido ideologico, il pugno levato, lo sguardo duro e teso al futuro” –, il poeta “più sessantottesco”, come lo chiama Franco Maniscalchi ).
Calì è la forza catanese dell’Antigruppo siciliano (i fondatori originari sono i trapanesi Gianni Diecidue, Rolando Certa, Nat Scammacca e il palermitano Crescenzio Cane). Santo Calì è poeta che, con eguale perizia e potenza poetica, ha scritto in “dialetto” e lingua nazionale.
Di questo poeta singolare, popolare e colto, che nella cura della lingua poetica sapeva ben sciogliere la sua memoria, il suo dissenso di uomo e il suo impegno etico-politico di cittadino non allineato e critico, Franco Pappalardo La Rosa, al convegno di Taormina (1985) – “Nel dire poesia” –, smentendo Ignazio Buttitta, dice che il poeta di Linguaglossa (Calì) si era creato un proprio linguaggio. Un linguaggio espressivo-comunicativo che, poeticamente “attingendo a tutti i vari aspetti della parlata quotidiana come a quelli della vita contadina e della tradizione colta”, non spezzava nessun filo di contatto con la gente, gli addetti ai lavori e i suoi lettori o ascoltatori; e Stefano Lanuzza – critico e poeta che privilegia la parola poetica scritta rispetto all’oralizzazione –, ironizzando lo stesso Buttitta, dice che il “mutangolo” Calì rischia pure “di essere scoperto, prima o poi, come il maggiore poeta dialettale del Novecento”, mentre il poeta di Bagheria (Ignazio Buttitta), “vero sciamano della voce dialettofona”, per i suoi innumerevoli recitals, risulterà sicuramente “più eminente del mutangolo Calì”.
Sempre sullo stesso poeta Santo Calì, Aurora Raineri, che ne ha curato la scheda per Volti e Pagine di Sicilia (Prova d’Autore, Catania, 2001), richiamando ciò che Rosario Contarino ha scritto in Operai di sogni (Comune di Randazzo, CT, 1985), riprende il fatto che il codice linguistico di Calì è una lingua di trasgressione non compromessa con la catramazione del presente e delle mode. Il suo idioletto poetico è screziato, e tale che, senza perdere gli ancoraggi offertigli dalla cultura classica, per la presenza di “barbarismi”, “neologismi”, termini “tecnici” e locuzioni di “linguaggi settoriali”, quanto per il riutilizzo del “dialetto” e del quotidiano, lo si può pure indicare come uno che ha modalizzato la fluorescente piega barocca per qualificare l’espressione comunicativa del suo far poesia. E com’è tipico della/nell’area espressionistico-barocca, la tipicità stilistica di Calì, così, si fa carico, pure, della denuncia delle ferite che toccano il suo habitat isolano (e non). Ferite che chiamano a motivo le responsabilità del potere socio-politico e religioso. Un potere che, nella più ampia vita antropologica ed esistenziale dell’uomo contemporaneo e dell’Isola, non manca certo di colpe e omissioni gravissime. Delitti politici e morali che Calì denuncia e attacca con la sua verbalità poetica fine e colta, e con i toni di un severo giudizio. I tratti dell’oscenità di certi termini, con cui si tratteggia il potere politico e religioso, sono solo un colpo di fioretto in affondo e decisiva condanna a morte per chiunque, dentro gli apparati, pensa di mettere in atto prediche e pratiche non coerenti e strumentali.
Troviamo, così, un poeta (Santo Calì) anti-gruppo che non è “piazzista” o altra diminutio populistica o voce isolata e funzionale per una sola stagione; un poeta che con altri siciliani, che antigruppo non sono, si trova così in sintonia per frequenze stilistiche e di pensiero poetico (non certo di corto respiro, ma condiviso a largo raggio) messe in giro dalle correnti e dalle turbolenze politiche e culturali europee e transnazionali. E così pure per tanta altra poesia che si fa ( o nata) in Sicilia.
Nelle “periferie mondiali”, il general intellect poetico, di volta in volta, così, attraversato dalle particolari turbolenze che rompono le simmetrie di scuola (o presunte tali) e le accademie, lascia nuovi semi; e questi, a loro volta, lievitano incrementando il sapere poetico e i suoi effetti di verità, di utopia, di funzione-invenzione e astrazioni congetturali. Una funzione-invenzione funzionale sia a demistificare quanto a resistere (se non a sconfiggerlo) antagonisticamente contro quanto deprime il privato e il pubblico etichettando come inutile la poesia e il suo linguaggio complesso e metamorfosante, lì dove, invece, tagliando pesca tanto nelle strutture profonde quanto nelle voci singolari dei testi, che in quelle trovano ragioni sia per andare avanti, sia per non dimenticare il debito verso i “morti” e riaccenderne le potenze rimaste bloccate.
E questa è una verità che affiora ancora “Nel dire poesia” (Mazzarò-Taormina – Hotel Villa S.Andrea - Sala Oli¬viero –, 9 agosto 1985); un verità che lievita nella tavola rotonda progettata e organizzata da “Carte Siciliane”, di cui anima essenziale è stato il poeta acese Mario Grasso.
Come argomenta Vincenzo Leotta, alla tavola rotonda, durante il confronto, nella poesia dei siciliani permane una tendenza di fondo che, senza perdere i contatti con la realtà dei luoghi e del tempo presente, travalica i confini regionali e si nutre anche dei movimenti del passato.
Le categorie, che servono a caratterizzare quel dialogo plurale, sono variamente connesse alla corrente metafisica, all’esistenzialismo, al post-cubismo, all’espres¬sionismo…ai linguaggi svezzati e taglienti dei Sud del mondo, etc. Quanto dire, ancora, che si parla e si dialoga immersi nella memoria e nella storia del gruppo e della terra in cui questi maturano per andare oltre tra riflessioni che sono anche proiezioni.

Il “neobarocco siciliano” appare svincolato del tutto o quasi dall’influenza di Qua¬simodo e dal peso di una tradizione legata alla realtà contingente dell’isola e ai suoi concreti e drammatici proble¬mi. Non nel senso che sia avvenuto nella poesia quanto è accaduto con Sciascia nella narrativa, cioè la “sicilia¬nizzazione dell’Italia”, ma nel senso che i poeti pongono in secondo piano l’analisi delle condizioni sociostoriche – su cui, invece, s’incentra, per portare un esempio, l'Antigruppo ‘70 e ‘ 80 –, perché più interessati ai grandi temi esistenziali sui quali si giuoca il destino dell’uomo e la sopravvivenza stessa della civiltà: la prevaricazione del potere, politico economico militare, sulla libertà delle coscienze, la supremazia della tecnologia che svilisce e snatura la persona, il capitalismo e la violenza dei mass-media […], in sintesi, la disumanizzazione dell’uomo e l’indeci¬frabilità del reale. […]. L’attualità non è però ignorata, bensì trasferita nel mito, […]. L’assunzione della problematica attuale al livello etico non è, infatti, disim¬pegno, evasione o peggio abdicazione […], è un procedimento non rettilineo ma circolare che riesce, ogni volta, a una consapevolezza più lucida e ricca. E, anche quando la cronaca s’impone prepotentemente e incalza impietosa e risentita la denunzia sociale ed esistenziale – come in Biodegradanti, ch’è una sezione di Lettere a Lory di M. Grasso –, essa è resa “attraverso processi sghembi post-cubisti”: il risultato è la deformazione grottesca, la dissacrazione irrisoria, un’atmosfera stralunata e spae¬sante, mentre, nelle liriche che intitolano il volume, l’ele¬gia d’amore sfuma nella visione, è sciolta in movenze e tonalità allusive, magico-stranianti, e lo stesso personag¬gio femminile è alonato da un’aura mitica, sospeso tra realtà e sogno, resoconto e favola.

Il neo-barocco (frequenza stilistica e di pensiero che anima costantemente la poesia siciliana, e riccamente presente, fra altri, in Stefano D’Arrigo e Mario Grasso) si coniuga così – continua Leotta – anche con l'area dell’espressionismo. E l’espressionismo “è categoria anch’essa indissociabile del barocco”, e di cui, del resto, è spia evidente “l’uso macroscopico e generaliz¬zato di tecnicismi e di vocabolario specialistico” – che non è assente dal vocabolario dei poeti siciliani –, sì che “al nome generico e astratto è sempre preferito quello determinato e concreto, con una puntigliosità spinta sino allo scrupolo e con un bagaglio tecnico insolito”.
Nella stessa tavola rotonda (“Nel dire poesia”), Jolanda Insana teneva a sottolineare che l’attività di ogni poeta è una tensione e un grosso lavoro, un laboratorio dove c’è anche “un margine di inconsapevolezza, di non-sapere, ma il poeta per essere poeta, cioè soggetto creativo, deve andare oltre questa incoscienza, oltre l’es, deve cioè passare dall’immaginario al simbolico, dal corpo al logos, attraversando tutte le possibili forme culturali della comunicazione e del sapere” .
L’espressionismo è così categoria poetica che, in Sicilia, non è patrimonio di un movimento e tendenza di uno piuttosto che di un altro. L’impasto e la febbre linguistici interessano e attraversano così i poeti siciliani (siano o meno antigruppo) perché ne è connotata la loro contingenza assoluta di uomini, e perché i linguaggi della storia non sono impermeabili e sordi. Linguaggi e segni che possono essere utilizzati sia per una testimonianza gridata e gestuale soggettiva quanto contro gli assetti sociali alienanti e oggettivi, che, in un determinato contesto, governano le strutture della disumanizzazione degli uomini e castrandone la felicità sociale e individuale.
Anche Lucio Zinna, fondatore del “Gruppo Beta” di Palermo, e vicino all’Antigruppo siciliano o all’interno del movimento “anti”, discriminando quanti hanno confuso la poesia col manifesto di partito o con la comunicazione sindacale e ideologica, nel “Dibattito su L’Antigruppo”, ha confermato che l’esigenza artistica (e prioritaria) dei poeti dell’Antigruppo non era limitata alla “piazza” e all’esasperazione solo ideologica; c’era anche quella variegata occorrenza stilistica, determinata anche storicamente, di “lavorare sull’uomo”, e non astratti dall’ambiente incidere sul tessuto sociale e, nel senso più ampio, operare “sulla parola […], eliminare o ridurre il divario fra cultura militante e masse popolari, in concreto e non solo teoricamente” .
Come dire che i poeti siciliani, non abdicando alla realtà, guardano e scelgono l’utopia (complessa e concreta) attraverso la lotta che vuole modificare lo stato di cose presente e denudando mistificazioni, menzogne e falsi approdi imbarcando pure le rotte poetiche. La parola poetica dei siciliani si fa così anche discorsiva e “pubblica”; e si muove come tale non perché è diventa solo ideologica e ignorante degli uomini, del loro sentire e dei loro contesti, ma perché vuole essere più vicina all’animale uomo in quanto comune abitante politico del mondo, prima che di una nazione o di una sovranità territoriale.
Emerge, ancora una volta, così, in una realtà siciliana variegata e plurale, mossa dal clima della contestazione degli anni Sessanta, una poesia siciliana vitale, non locale e legata alle grandi idealità correnti trasversali e contemporanee (surrealismo, neorealismo e post-realismo e l’altro dei linguaggi del ’68, etc.) e, come ha scritto Domenico Cara, anche una classicità trasgressiva del “Sessantotto”. “Il Sessantotto ha una “classicità” eversiva nel Sud, cioè è nato prima di tutti i tempi civili: i dedali, le connessioni terroristiche, ecc.; non è soavemente originale, ma ruvida e coatta funzionalità di sopravvivenza, processo di autogestione fisica e mentale, necessariamente derivata dalle condizioni di base della terra meridionale, le quali comunicano sempre (o spesso) le loro disperazioni con discreta follia e senza particolari tumulti, o modelli influenti e infaticabili” . Una classicità poetica cioè che – guardando anche alla grecità, e non suscettibile, pertanto, di critica superficiale – doveva funzionare, parafrasando ciò che in quegli anni dicevano Foucault e Deleuze parlando di intellettuali e potere, come una “cassetta degli attrezzi”.
Del poeta Rolando Certa (dell’antigruppo trapanese), per esempio, l’autore di Febbre, furore e fiele (1983) Giuseppe Zagarrio – poeta siciliano (il poeta del rapporto coscienziale della poesia con il mondo, in cui lo svelarsi individuo e umanità si fa in parallelo senza “sicilianismi” e “sicilitudini”; semmai con onirismo timbrato dal dolore) – ha detto che ci si trova in presenza di testi che sono connotabili con la “grazia della poesia eolica”; e Giuliano Manacorda, critico e storico della letteratura italiana, scrivendo una nota introduttiva a Il sorriso della Kore dello stesso Certa, ha detto che il poeta mazarese, forse l’ultimo dei neorealisti, è stato capace di una così ricca “invenzione metaforica” riguardante la donna amata, che non ha niente da invidiare a nessuno. Una capacità artistica che può essere propria di qualsiasi altro luogo e poeta. Eppure non tutta la produzione poeta del mazarese Rolando Certa, specie parte di quella che tocca l’impegno etico-politico, ha esiti artisticamente riusciti. Solo quando non viene esasperata la corda del netto schieramento e della prosaicità tout court, e invece prevale il senso (della comune umanità), e la critica e l’elegia sono temperate dall’autoironia e dall’ ironia civile, e fanno prevalere la sintesi poetica, allora i conti tornano. E così è anche per i poeti antigruppo o vicini al movimento.
Tornando all’incontro di Taormina, Marika Marchese, altro rappresentante di “Carte siciliane”, “Nel dire poesia” (di cui si già detto avanti), ribadisce che la poesia dei siciliani non può essere sottoposta né a “limiti geografici né linguistici”. L’identità molteplice dell’ordine simbolico siciliano, che – fin dagli anni delle prime colonizzazioni e conquiste di guerre e/o di mercato – ha goduto di continue mescolanze linguistiche plurali (riversatesi, poi, nel linguaggio dei singoli poeti), infatti (e per questo motivo di fondo), generalmente, non potrebbe essere “definita”, eventualmente, che come insulare metamorfosi e variazione singolare. Una variazione del general intellect poetico e letterario comune e sociale che, come ha scritto Stefano Lanuzza nel suo recente volume, Gli insulari. Romanzo della letteratura siciliana (2009), produce una poesia e una letteratura insulare mobile (nella lingua) e metamorfica, e tale che senza, come scrivono anche altri autorevoli critici (nominati dallo stesso Lanuzza nel suo libro), ne risulterebbe pregiudicata la stessa letteratura italiana.
Variazioni e metamorfosi produttivo-poetiche che, via via, hanno interessato e attraversato – con sperimentazioni (contaminazioni, impasti con parlate, dialetti e altre lingue, semiotica, iconicità e altra tecnologia) o altro laboratorio – anche il caleidoscopico e “polemico” movimento dell’Antigruppo siciliano, l’Antigruppo Palermo, l’Intergruppo e la Singlossia (Palermo), o agli altri movimenti (individuali o di gruppo) della Sicilia.
Nello spazio sferico della poesia, gli agenti atmosferici delle insorgenze e delle trasformazioni hanno fatto sì che la poesia siciliana e la lingua che la scrive abbiano avuto e goduto di topos e biforcazioni specifici. Il loro spazio e il loro tempo sono strati striati come da un vento di scirocco. Il vento afro-arabo che surriscalda ed effonde tutti gli odori e i sapori che girano nell’area del Mediterraneo e dintorni; il vento che ha animato la parola poetica siciliana contaminandola senza omologarla, e mantenendole anche le riserve del non detto e del “non trasparente”. Perché, come direbbe Eduard Glissant (La poetica del diverso, 2004), la vera “barbarie” è volere l’altro nella tua lingua.
E così ogni poeta, con la memoria delle comuni strutture culturali e politico-ideologiche di fondo, siculo-mediterranee (basterebbe, a volte, un occhio al lessico dialettale che nelle radici conserva l’arabo come il greco, il fenicio come il latino o il francese…), ha parlato singolarmente e con il gruppo come un’infrasoggettività piuttosto che come un’intersoggettività di individui assoluti e separati. Voce e scrittura di un de-serto complementare, dove lo scirocco è sicuramente il vento caldo delle passioni e delle bruciature timbrate.
E per dirla con la metafora e l’allegoria della letteratura migrante della rivista EL-GHIBLI, anche la lingua della poesia siciliana è , allora, un “ghibli” (scirocco), il vento del deserto, e che del deserto dice ciò che le altre lingue non sanno dire.

El Ghibli è un vento che soffia dal deserto, caldo e secco. È il vento dei nomadi, del viaggio e della migranza, il vento che accompagna e asciuga la parola errante. La parola impalpabile e vorticante, che è ovunque e da nessuna parte, parola di tutti e di nessuno, parola contaminata e condivisa. È la parola della scrittura che attraversa quella di altre scritture, vi si deposita e la riveste della polvere del proprio viaggio all’insegna dell’uomo e del suo incessante cammino nell’esistenza.

La lingua della poesia dei siciliani è, infatti (vogliamo credere), come un “ghibli”, il vento di scirocco del crogiuolo mediterraneo che ha caratterizzato la vita storica collettiva e l’esistenza personale dei siciliani. Il vento che devia, mescola, ibrida e creolizza i linguaggi, e che non abbandona i migranti anche quando si allontanano dalla loro terra. Perché la lingua, come la madre e la terra che li ha generati non li abbandona mai anche quando se ne allontano idealmente o materialmente. Se si profila il rischio, nella loro lingua, oltre i segni della geografia d’appartenenza (mitica e non), c’è la grazia del parola sgraziata e oscena che ci riporta impietosamente, e non solo per elegia o nòstoi, ma per sedimento strutturale.
E loro (vulcanici o piegati) ne trascrivono lo spirito, il corpo e la presenza ora con una poesia ora con un’altra. Un testo che potrebbe essere stato scritto, pure, altrove. Una poesia che si concretizza con/in quelle parole, simboli, miti, lotte, frenesia, sensualità e materialità animati che meglio ne semantizzano il dicibile e l’indicibile, o il visibile come le astrazioni più corpose e vuote che il “reale”, quello che in ogni modo scappa sempre dai limiti della parola orale e scritta, pone come un appuntamento non rispettato e spostato.
E così, in questa mesci-danza, la poesia dei siciliani si è misurata, si fa per dire, ora con la propria insularità specifica, ora con gli amori e la terra, ora con i focolai della pace e della guerra, dei conflitti civili, politici e sociali, ora con le ansie dei temi soggettivo-esistenziali, dell’identità e delle diaspore che la lingua come potenza testuale ha potuto attualizzare nel divenire poesia e poesia siciliana.
Una potenza del dire e del non dire che è anche propria di ogni regione topologica siciliana, sì che le nove province – Trapani, Palermo, Siracusa, Ragusa, Caltanissetta, Enna, Agrigento, Catania e Messina – della Regione Sicilia, nel comune general intellect poetico dei principi, delle procedure retoriche, delle tematiche e dello sperimentare in genere, e i loro poeti si porgono con una propria singolarità di scrittura che riflette e distingue, in ogni stagione, le individualità e la scrittura idiosincrasica propria allo stile di ciascuno. La lingua “sciroccata” della poesia siciliana che mescola e non azzera le identità nell’indifferenza, piuttosto ne attesta la struttura plurale e/o mediterranea, come plurale è l’identità stessa del paesaggio del Mediterraneo.
Del resto un general intellect poetico che insemina, come una pioggia, lo spazio della polis poetica dei siciliani, non può non riflettere la stratificazione storico-materialistica determinata e molteplice che ha dato materia e forma alla stessa corporeità della loro scrittura poetica, e di cui ora, qui, per stralcio e non saldo, si dà qualche assaggio testuale riportando le poesie di autori scomparsi, viventi, e di meno giovani e più giovani che, in alcuni casi, si sono provati anche nel cinema, oltre che nel teatro (Rino Marino).
Ogni parola è un’apertura sul mondo che ci sfida per essere esplorato, conosciuto e agito. Di questa apertura e “colloquio”, a mo’ di esempio, e in appendice, ci piace riportare per interno l’introduzione della traduttrice romena Eta Boeriu a Poeti siciliani Contemporanei (Timisoara, 1984)
Ora, di seguito, ancora, e per difetto (è impossibile chiamarli – noti e non – tutti), qui, nomi e testi di alcuni poeti: scomparsi o viventi, meno giovani e giovani.



APPENDICE
La poesia siciliana contemporanea
di Eta Boeriu

Forse potrebbe sembrare strano ed anche temerario l'intento di parlare della poesia siciliana contemporanea, di parlare cioè di una poesia che, essendo totalmente inserita nella sua propria dolente realtà, è an¬cora in piena ebollizione, si sta facendo, per così dire, giorno per giorno, non avendo ancora dato al tempo il modo di agire su di essa fissandone le giuste prospettive. E tanto più ardito potrebbe sembrare un tale in-tento, in quanto esso viene da parte di una che, come me, guarda a que¬sta poesia dal di fuori e, trattandosi di una antologia — per quanto im¬parziale e ben fatta — non può giudicare l'opera dei poeti in essa com¬presi altro che per frammenti, contemplandola con uno sguardo che è per forza limitato.
Premesso tutto questo, mi rendo conto che il mio proposito di parlare della poesia siciliana di oggi — senza però la pretesa di emettere dei giudizi critici su di essa — non ha da parte mia altro vantaggio oltre a quello di averla tradotta. E penso che non sia trascurabile, se è vero che nel traduttore, proprio per quella "corrispondenza d'amorosi sensi " che si crea fra lui e l'autore tradotto, proprio per quell'amore verso il testo esaminato anzitutto nella raccolta intimità e nel segreto della pro¬pria coscienza, nel traduttore si attua quella " forma plenaria della let¬tura " che, secondo la definizione di Borges, è la traduzione. Ho letto dunque anzitutto nella mia raccolta intimità questo florilegio di poesia siciliana del quale il poeta Rolando Certa ha voluto far dono al pub¬blico romeno, cercando poi, attraverso ripetuti esercizi di lettura, che sotto altrettanti esercizi di poesia e di difficili scelte formali, di far sì che nei lettori romeni possa compiersi in modo unanime lo stesso processo d'intendimento della poesia, la stessa forma plenaria di lettura, che si era compiuta in me, affinché attraverso la mia traduzione essi possano percepire la poesia nei suoi profondi significati.
Ma, parlando adesso non più in veste di traduttrice, bensì in quella più comune di un lettore più o meno competente — perché tale credo sia ogni lettore che ama la poesia — penso che la prima cosa che colpi¬rà il lettore romeno, dopo aver letto questa antologia, sarà il fatto che la poesia siciliana contemporanea è innanzitutto una poesia di nobile im¬pegno civile, una poesia di denuncia e di contestazione, profondamente radicata nella realtà. E troverà in questo suo primo accertamento una garanzia di autenticità, perché la realtà è unica fonte di vera poesia, allorquando Io scrittore sa far sì che l'avvenimento storico e biografico. vissuto o assunto, si alzi dal piano dell'esistenza reale per iscriversi su quello delle finzioni significative, sa far sì che attraverso la sua arte l'avvenimento storico diventi avvenimento letterario. E questa condizio¬ne mi sembra si verifichi nelle pagine dei poeti di questa antologia, poeti che, ricchi di un millenario patrimonio culturale, hanno saputo valoriz¬zarlo, facendolo funzionare come un vero filtro culturale che, assieme alla loro arte, ha decantato l'avvenimento greggio, storico o biografico, dandogli peso e valore estetico.
Ho accennato prima al millenario patrimonio culturale del quale la Sicilia è erede. Senza insistere adesso sulla classicità di certi poeti o sull'influsso dell'ellenismo su di altri, voglio mettere in luce un altro tratto caratteristico della poesia siciliana che è appunto la chiarezza, la solarità mediterranea di questa coscienza isolana che, pur travagliata come è, crea un mondo di purezza e limpidità, un universo poetico dal quale la poesia scaturisce quasi con l'irruenza di un fenomeno naturale. Il nostro grande poeta e filosofo Lucian Blaga, nel definire i suoi concetti di oriz¬zonte spaziale e di spazio-matrice, spiegava come la natura esteriore agi¬sce sulla spiritualità, sulla cultura di un popolo. In un canto per esempio, diceva Blaga, risuona non tanto il paesaggio, ma prima di tutto uno spa¬zio sommariamente articolato di linee e accenti, uno spazio schematica-mente ridotto alla sua statica e dinamica essenziale, che diventa in se¬guito la matrice stilistica di un popolo. In questa matrice stilistica sì stanno organizzando tutti i fattori determinanti dello stile, che lasciano la loro impronta su tutta la creazione spirituale di tale popolo. Chi con¬templa attimo per attimo — proseguo io adesso il pensiero del nostro Blaga — un paesaggio di linee pure ed essenziali, oppure i continui, acu¬ti contrasti della luce e dell'ombra, non potrà eludere le sollecitazioni della fantasia e dello spirito creatore, che verranno ad esprimersi poi in quelle determinate condizioni di chiarezza e solarità alle quali mi rife¬rivo all'inizio e che costituiscono, secondo me, la matrice stilistica della Sicilia. E giacché ho parlato della spiritualità mediterranea, mi permetto di citare il poeta Valéry, che ha sintetizzato in modo esemplare il ruolo del Mediterraneo nel mondo in queste poche parole: " l'edificazione della personalità umana, la nascita di un ideale per Io sviluppo completo e perfetto dell'uomo è stato realizzato sulle nostre rive. L'uomo misura delle cose, l'uomo uguale all'uomo davanti a Dio e considerato sub specie aeternitatis, ecco delle creazioni integralmente mediterranee, con im¬mense conseguenze che è quasi inutile ricordare ".

E' dunque in questo clima che nasce e respira la poesia siciliana che — tramite quest'antologia — manda il suo limpido messaggio di soli¬darietà al popolo romeno, ci invia il suo puro canto e la sua voce, che ci invoglia non solo a conoscerla più a fondo, ma a conoscere anche quello spazio mitico che le ha dato vita e che io oggi, in questo mio primo e tanto ambito viaggio in Sicilia, ho la fortuna di scoprire.
Quattro temi centrali, quattro motivi chiave mi sembra discernere nell'odierna poesia siciliana: oltre alla poesia di denuncia e di contesta¬zione del sistema borghese e capitalistico che emerge più o meno esplicita in quasi tutti i poeti che ho tradotto, altrettanto vigoroso risul¬ta il tema dell'amore per l'Isola: per questa terra definita «dolcedolente» che può essere considerata come centro emblematico delle contraddi¬zioni dell'Italia contemporanea, ma, allo stesso tempo, anche una vera riserva di forze e di energie vitali, dalle quali nascerà un mondo miglio-re. Sia che si tratti di poeti che hanno scelto di restare fermi sul posto, in mezzo al loro popolo, impegnandosi a tentare una operazione culturale nuova qui sulla propria terra di origine, sia che si tratti di quelli che hanno emigrato nel Nord e che continuano a guardare alla loro Isola con gli occhi del distacco e quasi con quel sentimento di col¬pa e rimorso dì chi non si sente partecipe diretto degli avvenimenti, tutti, tanto gli uni quanto gli altri, sono impregnati di quest'amore per la propria terra che lascia profonde tracce nella loro poesia. Ma, a differenza, per esempio, della nostra poesia d'amore per la patria, la poesia siciliana è sempre gioia mista al dolere, canto e lamento allo stesso tempo, a cominciare proprio da Quasimodo. E' commovente e struggente sentire questi versi imbevuti di pianto, questi canti mai sazi di lacrime, lacrime per le donne che perdono i loro tigli e mariti uccisi, lacrime per i bambini che lavorano nelle solfatare, lacrime per gli emi¬granti che forse mai faranno ritorno. Questo motivo dell'emigrazione che ricorre cosa di frequente nella poesia siciliana, mi pare le sia specifico — non l'ho trovato in nessun'altra letteratura di quante ne ho lette — e da questa specificità deriva anche la forza espressiva con la quale agisce sul lettore.
D'altro canto, un altro aspetto inedito per il lettore romeno sarà quello della poesia dialettale, anch'essa presente in quest'antologia, co¬me anche in altre più recenti antologie di poesia italiana. Questa presen¬za, in cui si è visto, da Pier Vincenzo Mengaldo per esempio «un atto di rifiuto e opposizione al... processo di accentramento livellatore» della lingua nazionale, può essere interpretato anche come, osserva lo stesso, un desiderio di ricorrere ad un linguaggio a vergine » schivo delle con¬venzioni socio-culturali, e come tale garante di una massima autenticità individuale. E questo credo sia il caso dei poeti siciliani che ricorrono al dialetto come a una lingua vera e propria. Purtroppo il traduttore ro¬meno non ha la possibilità di rendere il dialetto per dialetto, visto che il fenomeno dialettale assume altri aspetti particolari nella nostra lingua.
Un altro tema, infine, che appare spesso e che è connesso tanto alla protesta e alla denuncia, quanto all'amore della propria terra, è il tema della pace, autentico grido di spavento che scatta dall'animo di un popolo su cui incombe più che sugli altri, forse, la minaccia della guerra. La funzione mobilitatrice che assume in questo caso la voce dei poeti è ovvia: sono loro che devono aprire gli occhi al popolo sul pericolo che minaccia oggi tutto il mondo, e sempre loro quelli che unendo la loro voce a quella di tanti altri poeti di diversi paesi, devono alzare una comune protesta contro la guerra. E, arrivata a questo punto, mi piace e mi commuove rilevare come i due ultimi temi, l'amore per la terra natia e la lotta per la pace vengono a rispondere da lontano a due motivi analoghi della poesia romena di oggi; la quale, superate le condizioni di iniquità sociale, non è più, naturalmente, una poesia di denuncia e di contestazione, ma rimane lo stesso una poesia d'impegno civile, dedicandosi, placata, all'esaltazione della patria, del suo leggen¬dario passato e della sua mirabile natura, oppure, irrequieta ed ansio¬sa, esorta alla pace e all'amicizia fra i popoli del mondo.
Non potrei certo concludere adesso, senza mettere in risalto anche il filone della poesia di lacerazione esistenziale, ricca di immagini che scattano con forza, di sentimenti appercepiti con dolorosa acutezza ed espressi in un linguaggio scabro ed essenziale, filone che serpeggia lun¬go tutta l'antologia, anche se più o meno evidente, secondo l'indole di ciascuno dei poeti che investe. E non posso trattenermi dal riconoscere che è proprio questo il filone più affine alla mia indole poetica, alla mia poesia e non solo alla mia, ma anche a una gran parte della poesia contemporanea romena.
Giunta alla fine di queste scarse e modeste osservazioni sull'odier¬na poesia siciliana quale essa risulta dal florilegio che ho tradotto, non trovo miglior modo di ringraziare il suo artefice, il poeta Rolando Certa, se non quello di assicurargli che, come lui stesso ebbe ad au¬spicare alla fine dell'introduzione talmente preziosa che precede l'antologia, essa sarà senz'altro « accolta dal popolo e dalla cultura rome¬na come un messaggio di fraternità » che contribuirà « a rinsaldare gli antichi vincoli di parentela e di amicizia tra i nostri due popoli che le vicende della storia hanno accomunato ».

Nota
«TRINACRIA», poeti siciliani contemporanei, pagg. 312, Editrice «Facla», Timisoara (Romania), 1984. Antologia e studio introduttivo di Rolando Certa. Traduz:one di Eta Boeriu. Autori inclusi: Salvatore Qua¬simodo, Giuseppe Addamo, Francesco Battiato, Ignazio Buttitta, Santo Cali, Crescenzio Cane, Bartolo Cattafi, Maria Celeste Celi, Rolando Certa, Antonino Contiliano, Antonio Corsaro, Antonino Cremona, Gianni Dieci-due, Mario Farinella, Luigi Fiorentino, Melo Freni. Emanuele Gagliano, Aldo Gerbino, Rino Giacone, Salvatore Giubilato, Mario Gori, Giuseppe Guida, Federico Hoefer, Giovanni Lombardo, Irene Marusso. Vincenzo Ma¬scàro, Orazio Napoli, Elvezio Petii, Lucio Piccolo, Angelo Maria Ripellino, Angelo Scandurra, Emanuele Schembari, Fiore Torrisi, Luisa Trenta Musso, Stefano Vilardo, GiuseppeZanarrio, Lucio Zinna.
Il volume è illustrato con disegni e riproduzioni dei seguenti artisti italiani: Renato Guttuso, Ugo Attardi, Salvatore Fiume, Giuseppe Migneco. Emilio Greco, Santo Marino, Gianbecchina. Bruno Caruso, Carlo Puleo, Mario Bardi, Roberto Zito, Ernesto Treccani, Enzo Santostefano.