venerdì 1 gennaio 2010

Giuseppe Addamo

Giuseppe Addamo è nato a Catania e vive a Modena. Ha pubblicato
"Poesie", Modena, Ferraguti, 1954; “Fra ombre adunche ”, Modena, Ferragu¬ti, 1956; “A proposito del Manvnuth”, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1962; “I segni topografici ”, Padova, Rebellato, 1967; “I segni topografici e denigrammi ”, Palermo, Libri Siciliano Editrice, 1971; “Ossimori & tautologie (poesie visive) ”, Catania, Edigraf, 1972; “Ipotesi barocca ”, Matrice, Grafedit, 1976; “La rosa nel tempo ”, Castello di Borgo alla Collina, Arezzo, Accademia Casentinese, 1982; “Un uso della vita ”, Bologna, Seledizioni-poesia, 1985; “Il sigillo di cenere, Firenze ”, Il Candelaio Edizioni, 1988.


POESIE

(Da: “Poeti Siciliani”, Il Vertice, Palermo, 1974)


A Tempo Di Shake, Bach

In partes infidelium, amavi
nuotare sul dorso, cogliere
nell'acqua il sole, sciogliervi
i capelli — ed era una specie di
fiamma — guardare in faccia dei
e cristi degli abissi, la
qualsiasi cosa, pesce o alga,
che abita il mare e si nutre
— come te — di sale. In partes
adversas, l'immobilità era
il tuo rifugio; la tautologia
del silenzio, un equilibrio.
Amavi dimenticarti a difesa
dalla morte che ci corrode già
vivi. Chiaramente eri in attesa
d'una identità, perseguivi
un destino : a tempo di shake
ora anche Bach ti consegna
a un altro, più muto silenzio.


Vetrofanie in un sistema: quasi una litania


Non ricordi più che si può vivere quasi
oliva speciosa in campis, quasi rosa
piantata super rivos, quasi (insomma)
eterni, ma che si frantumava in luci
un incendio di vetrate e come arsero
a torce le colonne ed erano schégge
di altare o fiori, note e grida — alte
(fra i santi) come spade e che i portici
(e poi le strade) s'aprirono in fiamme
a svegliare echi dagli angoli d'ansia
che le ore tracciano sugli orologi
e dilatano in orizzonti, in un urto
di scelte e di memorie (di ipotesi
e di annessioni) — affilatissime :
parole (fu, del resto, facile profezia)
che durano, cocci di pazienza, sassi
gotici per riscattare un sottosuolo
d'amore (se mai ne accoglie), o ferite
che in se stesse ironicamente mutano.
Perchè le parole non sono cieche,
né certe, organizzano il silenzio
o traducono il dissenso di quanti
— ad pedum osculum admissi — resistono
in una loro fragilità che è (o pare)
salvezza, in un sistema esatto e folle
costruiscono un altro tempo, un altro
inferno succeda pure — incomparabile
all'inferno, e senza sosta si rinnovano
— come te, quasi papyrus ambigua in aqua.



(Da: “Gli eredi del sole”, Il Vertice, Palermo 1987)

I colori si fanno nomadi

Fra possesso e abbandono (mi abbandono
in te, mi abbandoni, in me ti abbandoni,
ecc. ecc.), nella mobile grammatica
dell'oro, delle nuvole, si fanno nomadi
anche i colori che il venire della sera
sùbito corrompe in fumo. Ed è ira
ed è dolore recuperare il privilegio
di attimi che ci resero immortali, mortali.
Poi, la stazione — ovvero
la tua presenza che si perde, che
— per rapide escursioni — si espande
in geografie d'altrove, ad occupare
gli angoli dell'essere. Ma ogni fine
(questo mi dico, quando alberi e
colombe, parole e gesti con te emigrano
o si prosciugano in pietra di tristezza)
chiude e inizia — per dilatarlo come
il tuo sguardo asseconda — il cerchio
che ci salda.


(Da: “EquÍvalencÍas” – Revista Internacional de PoesÍa, Madrid, 1989)


Una questione di fusi orari

L'appanna il gelo della notte e trema
—fra nubi e mare— il metallo dell'ala, errante
con i meridiani a inseguire il giorno
nell'ora che immobile resiste. Trema
sempre all'orlo di strane costellazioni
e non evade dal silenzio che la vocale
della luna, implacata, ripete interminabile.
Cristallo, nera rosa, tempesta o appena
cielo questo che l'alba tenta d'infinita
imminenza e che solo i lampi, qua e là,
squarciano irrisolto in un tempo senza
tempo ove ormai dispero d'incontrarti,
di elidere l'anticipo per il quale, a me
contemporanea di pensieri, tuttavia altrove
mi precedi. Attra¬verso ellissi o, forse,
sogni; rincorro eventi per te ormai
accaduti e vivo e non vivo il tuo passato
e il mio futuro assieme, ma confusi
in una vastità senza spazio che mi perde:
cos( al sole dei Tropici, per le spiagge
dei Caraibi, cieco d'azzurro smèmora
il cormorano e nel volo che s'aggroviglia
smarrisce il suo viaggio, s'abbandona
alla felicità, allo strazio di una luce
che non ha fine.


L'iguana e la luna nera

Immobile, riarsa fra le rupi, l'iguana vigila
archeologie, propizia l'uragano: dicono che
si nutra di pietre, che il suo occhio vitreo
imiti l'attesa, la durata immutabile dei secoli.
Eppure il lauro si oscura e la luna nera dice
che Diana, prima dell'aurora, è morta per sempre.
Per sempre la freccia —scagliata— si negherà
al moto e fedele all'amore, infedele alla vita,
il mio raccontarti —nel guelfo, inconsumabile
autunno di questa città che sempre più somiglia
a una Venezia appestata e senza mare— sollecita
inferni: perciò, se vagando indugiò fra Samo
e Samotracia, ora esula per geografie azteche
dove il fiore s'illimita in foresta, o andaluse
attraversate da fiumi, venti e vessilli, ma
s'inceppa appena raggiunge il tuo volto o se
lo sfiora, perché ogni parola ti cede una parte
di me e ti appartiene. Così dall'evento alla sua
finzione, oscilla una specie di allegria che sa
di strazio —o è follia— e il silenzio trascorre
—ma lento— fra il dire eterno e l'invisibile
tempo.

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