sabato 1 maggio 2010

CRITICA

ERMINIA PASSANNANTI
su Marie Donna Lancaster, Americanata , Modena, Bollettariolibri 1994

Americanata: dialogo intrinseco

Quando si prende tra le mani una nuova traduzione, sia essa ideata ex novo nella lingua target o rivisitata sulla base di traduzioni pre-esistenti, bisognerebbe innanzitutto interrogarsi sul senso dell’esperienza che questa nuova impresa ha avuto per il suo traduttore, sia egli o ella poeta di suo, o intellettuale intenzionato ad offrire un servizio alla propria cultura di appartenenza.
Nel caso di Americanata, della poetessa di New Orleans, Marie Donna Lancaster, realizzata da Nadia Cavalera, oltre i problemi d’ordine pratico e teorico, connessi alla resa di un testo dentro e fuori i sistemi normativi che lo governano, conviene, dunque, chiedersi, come recensore del volume, cosa abbia rappresentato per la traduttrice venire a contatto con questa autrice americana, in termini sia di scelta sia di qualità dell’ interazione poetica.
Il libro offre diversi immediati spunti di apprezzamento come contatto visivo e tattile e predispone a pregustarlo: ha uno stile “vintage”, con il dorsetto corto che rimanda al formato degli inserti o supplementi delle riviste anni ’40-’50, una copertina lucidissima rosso sangue che appaga l’aspettativa di passione ed inquietudine. Da questa immersione tonale emergono infine il nome dell’autrice ed il titolo del libro, in grassetto nero.
La raccolta mostra in copertina l’immagine quasi in silhouette di una donna in abiti scuri, con guanti e cappello piumato, calato sulla fronte a adombrare gli occhi e mettere in evidenza la forma delle labbra ben disegnate. La figura femminile ha il braccio appoggiato, come su un bancone di bar, e mantiene una posa col mento sulla mano, simile a quelle delle dive dei film americani degli anni ’50. L’immagine sfocata lascia spazio ad ipotesi sull’identità della modella e suggerisce un’identificazione plausibile della traduttrice con questa sofisticata ed emancipata immagine di donna americana. Ma andando oltre l’aspetto squisitamente estetico, cosa rende questa traduzione davvero speciale? Perché Nadia Cavalera ha scelto di tradurre Marie Donna Lancaster? Morta a New Orleans nel 1993, in un incendio, a Marie Donna Lancaster, informa il libro nell’ultima pagina del volume subito sotto all’indice, non sopravvive nulla, oltre a queste 31 poesie. La struttura conferita al volume di poesia, che si avvale del testo a fronte, lascia figurare che questi versi, salvati da un fuoco divampante e letale per la loro fantomatica autrice, sia stato quasi miracolosamente consegnato in forma di manoscritto a Nadia non solo come editrice di Bollettario, ma come loro futura traduttrice. Fare conoscere questa voce al mondo, portarla fuori dalla morte in un altrove anche culturale, ha il sapore di una missione, come se Cavalera ne avesse accolto un SOS.
La peculiarità di quest’interazione è che Nadia Cavalera traduce se stessa, in quanto Marie Donna Lancaster non è altro che un suo pseudonimo. Ovvero, è molto più di uno pseudonimo, essendo una sorta di alter-ego. Usare uno pseudonimo è stratagemma non inedito in poesia, anzi l’uso dello pseudonimo maschile era in auge in Inghilterra ed in Francia nel Settecento ed Ottocento in epoche in cui diverse donne scrittrici, come George Sand o le Brontë, preferirono non esporre la propria opera al rischio d’incontrare il pregiudizio di critici e lettori. Nemmeno è nuovo l’espediente della pseudo-traduzione, anzi correnti letterarie e stili si sono mossi attraverso l’Europa grazie a questa pratica.
Ma in Americanata, che informa essere per la cura e traduzione di Cavalera, a ben vedere non siamo di fronte né a l’una né all’altra problematica: da autrice contemporanea, Cavalera non ha bisogno né di usare uno pseudonimo maschile, o voce travestita, per agevolare la pubblicazione della propria opera e sviare la critica maschilista – anzi, come Virginia Woolf, se l’autopubblica nella propria casa editrice – né ci mette di fronte ad una pseudo-traduzione, sicché il testo nasce nello spirito del suo tempo e ne rispecchia le tendenze postmoderniste.

L’artificio dell’opera si addensa nell’ordine del testo a fronte che è invertito, suggerendo la dipendenza del testo in lingua italiana da quello in lingua inglese. Cavalera, che traduce se stessa come altra da sé, colloca questa maschera solo nominalmente altrove, è anzi vi si ricongiunge direi ludicamente, perché caduta la necessità sociale ed epocale del nascondimento, stabilisce tramite il diaframma della traduzione un rapporto per interposta persona con l’unicità del proprio testo di partenza, rivolgendo apparentemente all’esterno lo sguardo che la poesia lirica volge solitamente al proprio interno.

In tal senso, Americanata mi sembra privilegi per presa di posizione più le ragioni dell’espediente formale che quelle della propria voce lirica. Cosa accede quando l’identità dell’Io fittizio offre all’autore dell’opera in questione un’occasione per riformula la propria? La conseguenza è che la voce poetica di Cavalera e dei testi che articola possono essere intesi come sottoposti a fini sdoppiamenti, coerentemente a ciò che ha appunto luogo nella prassi traduttiva. Come in ambito traduttologico, queste dinamiche e queste priorità originano tutt’altro che spontaneamente dalla “contemplazione” della scrittura, delle tematiche, della biografia di un Altro da sé. E bisogna aver fiducia nell’incitamento che emerge dal verso che Cavalera cita dal manoscritto di questa poetessa americana visionaria, arsa del proprio fervore: “Vai, libro sordo-muto” (“Go, deaf-mute book”:M.D.L).
Un successivo spunto d’interesse è, infatti, offerto dal ricorrere, in ogni segmento, del refrain, “erano spinti da fervore religioso”, non necessitante alcun altro commento in questa economia di fuochi ed esecuzioni capitali, che si imbatte a p. 41 in due lapidarie affermazioni, le quali si evidenziano per il loro indubitabile rigore logico, come a disciplinare il senso del poemetto, due frasi enunciate in netto contrasto con l’apparente illogica logorrea di tipo rosselliano o campaniano del poemetto: “oltre al mio gusto per la contraddizione”, e “dell’energia politica che fuor dalla mezzanotte del nono mese / potrebbe / risultare / necessaria.” (p. 41)
Per concludere, è opportuno uno sguardo al volume nella sua traduzione inglese: la tensione di Cavalera verso il valore anche linguistico formale di questa impresa convince in entrambe le lingue. Tale formalismo (traduttologico) si attua, appunto, tramite la ristrutturazione fedele ma anche creativa dell’impianto estetico-formale del testo di partenza in Italiano. L’intimità con i testi di arrivo e partenza, conferita dall’essere al contempo autrice e traduttrice del volume, non preclude, anzi agevola l’accettazione della distanza di cui parlavo in apertura, dando un taglio metaforico al cordone ombelicale che lega il poeta ai propri versi, proprio in ragione di questa opera di negoziazione e spostamento linguistico. Auto-traduzione, dunque, come compresenza di due momenti distinti, e pur tuttavia interagenti, o, se si preferisce, paradossali della scrittura poetica, che si autoregola, ed autodistanzia in un “altro da sé”, dove, citando un verso di Cavalera, “angosciosamente tutta la notte la maschera stride” (Americanata, p. 41)
E ora, su queste pagine, ulteriormente stimolata sul senso della traduzione poetica, mi viene da immaginare il fantasma della poetessa Marie Donna Lancaster sussurrare all’orecchio della sua traduttrice: “lo senti il fischio dell’alieno”. (p. 57)

Salerno, 21 Marzo 2011



DOMANDE CHE ESIGONO RISPOSTE RIGOROSE

di Angela Giuffrida

Alla promozione di un dibattito da parte de l’Unità sul silenzio delle donne, avvenuta più di un anno fa, avevo riposto ponendo dieci domande. Il mio contributo, cestinato da l’Unità, è apparso sul sito del Paese delle donne e più tardi su Leggere Donna, la rivista di Luciana Tufani. Il mio intento era di spostare i termini del confronto dal piano indeterminato di un generale ed inspiegabile mutismo al nocciolo duro del problema che rimaneva fuori dalla discussione. Ancora oggi, purtroppo, resta intoccato ed intoccabile dato che gli interrogativi avanzati non hanno sortito risposta alcuna. Li ripropongo, riassumendo il mio intervento di allora, nella speranza che la pressione esercitata dall’aggravarsi della crisi renda le menti più disponibili al confronto.
Secondo me bisogna assicurare una cornice più ampia al problema del silenzio femminile e cominciare a parlare di rifondazione del pensiero tout court. Certo ci sono periodi in cui l’arroganza del potere si manifesta in tutta la sua sfrontatezza, senza veli che la addolciscano, ma non per questo bisogna dimenticare che il potere maschile è sinonimo di dominio e che le comunità androcentriche sono ovunque organizzazioni della dominanza se è vero, com’è vero, che sulla gratuità del lavoro di cura affondano universalmente e pervicacemente le loro fondamenta. La questione femminile non è un’”anomalia” solo italiana. Per la verità sull’azzeramento del punto di vista delle donne, quindi sulla negazione di un pensiero autonomo femminile, gli uomini hanno fondato le loro società palesemente autistiche, e ancora oggi in tutto il mondo, anche nelle nazioni che ci sembrano più democratiche in quanto prevedono un maggior numero di donne nei luoghi del potere, nessuna donna è veramente soggetto né mai lo sarà finché continuerà a guardare il mondo dalla fessura attraverso cui il maschio umano lo guarda.

Inseguendo dati singoli che richiamano il loro opposto, gli uomini polarizzano la realtà che risulta in tal modo atomizzata e conflittuale, in nulla rispondente alla realtà di fatto, soprattutto a quella vivente che si è costituita e si mantiene in essere grazie ad intricatissime ed insolubili connessioni. Questo è l’approccio cognitivo maschile ed è un modo indubitabilmente inadatto a gestire il mondo razionalmente: l’universale disumanizzazione, l’irrazionalità divenuta sistema di vita costituiscono la prova provata delle superiori affermazioni; stando così le cose, se continuiamo a muoverci all’interno di tale parzialissima e poco veritiera rappresentazione del reale neanche a noi è dato elaborare una nuova idea di potere, di politica, di democrazia.

Ma le donne in genere stazionano dentro il pensiero maschile di cui continuano ad utilizzare gli scellerati meccanismi. La tendenza ad affrontare separatamente i problemi si evince nel dibattito in questione che si dipana attorno a temi non comprensibili se decontestualizzati; ad esempio l’afasia del nostro genere va collocata nell’universale afasia che impedisce a donne e uomini nel mondo di elaborare pensiero atto a muovere razionalmente le azioni della specie (in questo senso bisogna intendere il silenzio: le parole sono mute se non riescono a rivoluzionare l’esistente). Anche la questione femminile non potrà essere compresa appieno, e quindi superata, finché non sarà chiaro che è solo la punta di diamante di un generale misconoscimento della natura del vivente umano, maschio o femmina che sia, considerato come tutti gli altri viventi “cosa” tra le cose, puro mezzo per soddisfare bisogni altrui.

Parimenti la divisione delle donne in movimenti, gruppi, associazioni autoreferenziali, tra loro non o poco comunicanti, rispecchia la separatezza endemica nel paesaggio cognitivo maschile e l’acquisizione inconscia dell’idea maschile di conflitto come opposizione escludente – sottolineata peraltro criticamente dal femminismo - che situa l’altra/o nel ruolo di nemico, impedendo qualsiasi confronto costruttivo.

Io credo che i caratteristici tratti di chiusura e rigidità tipici della mente maschile inducano tutti gli uomini, non solo italiani, ad escludere la diversità e a prevedere al massimo l’omologazione che produce la neutralizzazione delle differenze, cosa che il pensiero politico femminista non ha mancato di osservare, rilevando che non sono possibili emendamenti. Ciononostante le donne rimangono in genere nell’alveo del pensiero maschile e perciò continuano a rifiutare un salutare confronto, soprattutto con un pensiero come il mio che imprime al cammino della specie una svolta di 360° . Certo le idee rivoluzionarie sono destabilizzanti, perciò fanno paura, ma se davvero si desidera una società civile e giusta bisogna per forza rivoluzionare l’esistente.

Per riannodare i fili di una rivoluzione pericolosamente interrotta, come fa notare Lidia Ravera, per non continuare a girare a vuoto, disperdendo tempo ed energie preziose, per non continuare a “lamentarsi, risentirsi, portare rancore” inutilmente, dobbiamo porci alcune domande che esigono risposte rigorose:
- E’ possibile realizzare nel mondo gli ideali di giustizia, uguaglianza e libertà se il fine della politica continua ad essere a tutti i livelli quello maschile, cioè il conseguimento del potere?

- Il raggiungimento di tali nobili ideali non comporta che gli individui umani in tutta la loro concretezza e diversità occupino il centro e che il fine politico sia assicurare a ciascuno di loro non solo la sopravvivenza, ma l’evoluzione ed una buona qualità della vita?

- Per fare ciò non occorre cambiare radicalmente il punto di vista politico, trasferendolo dal ristretto campo del bisogno maschile di potere al vivente umano tutto intero (non importa se femmina o maschio) e ai suoi bisogni ineludibili in quanto vivente e in quanto umano?

- Per farne il centro dell’azione politica non è necessaria una visione affatto diversa dell’essere umano, non più cosa tra le cose, “statua di terra” come diceva Cartesio, puro mezzo per soddisfare bisogni altrui, ma soggetto responsabile della crescita sua e della sua specie, nel rispetto delle altre che rendono possibile la vita sul pianeta?

- Come mai noi donne abbiamo in genere tanta difficoltà a riconoscere di essere il soggetto deputato a tale rivoluzionario cambiamento? Da sempre siamo noi a costruire l’organismo umano perciò lo conosciamo; poiché da sempre ce ne curiamo sappiamo che cosa gli serve per vivere ed evolversi.

- Come mai tardiamo a riconoscere ed affermare con determinazione che siamo noi l’autorità in materia di viventi?

- Perché mai tardiamo a prendere atto che la guerra senza quartiere dichiarata dagli uomini alla vita in tutto il mondo (basti pensare alle cifre iperboliche destinate agli armamenti, a fronte dell’inspiegabile limitatezza di quelle destinate alla vita, ed alle irrazionali uccisioni di donne, bambine/i, ma anche uomini innocenti) rivela una abissale carenza di conoscenze nel campo del vivente dovuta presumibilmente al fatto che essi non protraggono la vita e non se ne curano?

- Perché ci riesce difficile capire che il disprezzo maschile per i corpi viventi e i loro bisogni, per le donne e le attività di riproduzione e di cura costituisce un serio ostacolo al mantenimento della vita sulla terra?

- Per quale motivo esitiamo a riconoscere che solo una mente capace di abbracciare la vita nella sua reale complessità può governare un mondo di viventi e che questa mente è la nostra?

- E infine, è davvero così difficile comprendere che fare appelli, scendere in piazza, manifestare e contarci non serve a niente se non sarà ristabilita la verità e cioè la centralità della donna?
Dalle risposte a queste domande dipende, io credo, la possibilità di superare l’inquietante mutismo di donne e uomini e avviare un confronto serrato e proficuo.




Per un’allegoria differenziale nella pittura di Giacomo Cuttone
di Antonino Contiliano


                          «L’analisi del pensiero è sempre allegorica in rapporto al
                                  discorso che utilizza. Il suo problema è infallibilmente questo:
                                  che cosa si diceva in ciò che effettivamente veniva detto?»
                                  Michel Foucault (L’archeologia del sapere, 1969)



Il tempo non è mai, e solo, sviluppo rettilineo senza retroazioni. Tra continuità, fratture e ritorni è come l’acqua di un fiume in discesa e turbolenta. Una corrente che, incontrando ostacoli o altre deviazioni che turbano l’andare liscio, forma dei vortici obbligando il percorso a dei zigzag che mescolano discesa e risalita. Discontinuità e continuità si combinano in un intreccio complementare, e senza escludere le variazioni del caso dovute al contesto.

Basterebbe pensare alle forme dei diversi paradigmi che hanno caratterizzato lo stile di ricerca e realizzazione sia nel campo scientifico-filosofico quanto in quello artistico vero e proprio per quanto riguarda l’infinito e il problema del suo continuum; lì cioè dove si lavora secondo la convinzione che la “natura non fa salti” e si applica il modello conoscitivo-operativo della gradualità. È l’innesto finito che, nella ricerca scientifica sofisticata delle particelle o delle onde quantizzate, richiude la forma sfrangiata allorquando il metodo delle equazioni differenziali e della “rinormalizzazione” riassetta gli strappi che avevano bucato il fronte della formalizzazione acquisita. Analogo, secondo noi, è il procedimento che corre nelle forme sperimentate/li dell’arte contemporanea che guarda le cose da altri punti di vista rispetto al dato, e prospetta altri schemi organizzativi per chiudere in un quadro la forma ipotizzata dall’artista.

Fluttuazioni e flussi ritrovano così il loro riequilibrio instabile grazie ad una nuova organizzazione formale. Niels Bohr ricordava che “siamo a tal punto prigionieri del linguaggio che ogni tentativo di formalizzare un’intuizione è un gioco di parole”. Nel mondo dell’arte, parafrasando, analogamente, si può dire che l’intuizione del pittore trova corpo nella raffigurazione pittorica ricombinando i semi del linguaggio artistico.

Il problema della ‘forma’ cioè ritorna forte e pregnante, sebbene alla luce delle necessarie e contingenti innovazioni e delle tras-formazioni ritenute obbligate dalla scienza e dall’arte per trovare risposte e azioni non omologanti e stagnanti, se non si vuole perdere l’ascolto con il tempo vissuto e immaginato anche verso il futuro.

Così è anche per/nel mondo dell’arte contemporanea. Così travagliata dalla sperimentazione accelerata, e fino agli estremi dell’informale, dell’informe e della realtà virtuale del digitale elettronico, la ricerca della forma nell’arte, infatti, come quella dei campi del fantastico bestiario quanto-relativistico e dei vortici ‘caotici’, non cessa di porsi come il mediatore ineludibile. Perché, in ogni modo, arte e scienza hanno una stretta parentela in ciò per cui danno volto alle cose visibili e invisibili: la forma/figura organizzativa.

Il raffigurato visualizza allora il mondo organizzato e/o ri/organizzato in/per schemi. Dalle immagini più corpose ai diagrammi più astratti o alle stesse equazioni algebriche più astratte, e rese visibili in forme aritmo-geometriche, oggi, grazie alla grafica compiuterizzata, anche in tracciati osservabili e colorati, le forme determinate giocano il loro ruolo di mediatori. Ma in alcuni luoghi e tendenze dell’estetizzazione spettacolarizzata, la forma è tutto; e ciò, ottundendo la necessaria divaricazione che ci deve essere tra l’autonomia (non “purezza”) dell’arte e lo spaccio ideologizzante, non aiuta a distinguere tra la figura e il raffigurato, specie se l’immaginario si identifica con il digitale/sintetico senza doppio fondo. I segni non ci dicono più di nessuno scarto e distanza. Il “fantasma” dell’idea, del pensato, sentito, immaginato e virtuale, fa tutt’uno con la realtà, mentre la comunicazione mediatica si fa carico di trasformarne l’ideologia da progettualità in astrazione indifferenziata di vissuti reali pacificati. Stati d’esser-ci che, accompagnati da atteggiamenti e comportamenti relativi coerenti, veicolano solo consensi conciliativi con il mondo dell’amministrazione organicamente meccanica. Persino all’arte (in genere), che si alimenta di soggettivazioni immerse nelle dissimmetrie delle cose e della molteplicità delle relazioni, si chiede di abbandonare il suo senso di scarto e di dissenso tra le forme, l’anti-pre-formale e il sopraindividuale, e che tuttavia trascende dalla stessa contingenza in cui si concretizzano gli eventi. Come dire che l’universo del discorso della letteratura, della poesia e dell’arte lascia perdere la sua funzione anche di critica politico-culturale per farsi mediatrice di consenso acquiescente annegando il conflitto e il divorzio tra parole, immagini e le cose. Il nuovo “sublime”, questa fase dell’evoluzione, che il mercato unificato della produzione immateriale predica e pratica come res naturale dell’ordine del discorso. Abolito il conflitto tra gli eterogenei e gli stessi luoghi della differenza tra la forma socio-politica realizzata e lo slancio utopico dell’arte, ed espulse persino le etero-topie, non rimarrebbe che l’inerzia e il lasciarsi vivere dal fine-storia. Così lo stesso ordine simbolico (e proprio) del linguaggio pittorico, più esposto al consenso consumistico per l’impatto immediato delle forme-immagini, sembra mediare più simulacri (senza rimandi) che immaginazione protesa verso l’attrito con gli eventi concreti dell’assicurazione e della gratificazione acritica.

C’è però ancora chi, nel mondo degli artisti (lontano dalla pubblicità mercantile e dei riflettori degli sponsor di moda), come il pittore siciliano Giacomo Cuttone opera anche in modo differente e contro-tendenza: dipinge, fa grafica, incisioni e chine con l’agire dei colori e degli schemi dell’altrimenti dell’allegoria. Come dire che la sua arte è connotata dagli scarti dell’allegoria (dipingere/dire-altrimenti) del differenziale delle diseguaglianze; per cui un certo ordine del discorso (simbolico), specie se ha a che fare con le forme del diritto e della politica, non assorbe interamente il reale socio-culturale e le altre variabili.

Ci piace, così, qualificare questa allegoria pittorica dell’artista Giacomo Cuttone come un’allegoria del differenziale artistico, in quanto ratio che – diversamente da quanto accade nel caso del classico “calcolo differenziale” del sapere deterministico classico e omogeneizzante – non rinormalizza le equazioni disturbate dall’eteros, ma utilizza il differenziale come campo pittorico di sperimentazione storico-materiale perché emerga l’eteros, e perché l’eteros si strutturi in forme composite per affermare il suo diritto di essere voce ed esistenza altra, ma egualmente vita da vivere fuori il condominio dell’omologazione forzata. L’opera “Transgender (50x50 acrilico su tela)”, da questo punto di vista, ci sembra una delle più eloquenti e riuscita. La polimorfia è resa con l’impasto delle macchie di colore che timbrano la figura nella sua non-monogama espressione di insopprimibile identità singolare duale (uno-di-due, una identità molteplice o complessa).

Transgender
Le immagini che l’opera pittorica di Cuttone ci offre, secondo chi scrive, non solo hanno una continuità nel lavorio della forma, sempre sottoposta a torsioni geometriche e cromatiche di varia piegatura e sfumature scopiche (sia che impieghi il contrasto nero/bianco o la gamma dello spettro luminoso dei colori), conservano pure e ancora la distanza e lo scarto tra ciò che viene raffigurato e il quid raffigurato. Un quid non dimentico che nel “tra”, come si osserva nel lavorio del piano e delle sagome sottoposti ai continui mutamenti, ci sono le possibilità di altre esplorazioni semantizzanti esteticamente. E ciò perché al nostro pittore preme anche un certo discorso (impegnato) di demistificazione e cura. Egli, infatti, avendo cura ad evitare i facili slittamenti delle retoriche soggettivistiche di moda, smaschera certa alienazione culturale-politica invasiva e omogeneizzante, la quale adombra negativamente l’irruzione delle alterità e delle differenze. Una cura artistica dunque, quella del Cuttone, che cattura a volo l’ombra della negativizzazione all’istante e la rende visibile trasbordandola (dopo averla vagliata e “sverniciata”) sulla tela come un “giudizio riflettente” proiettato sul piano spazializzato del quadro stesso. Come indicava Paul Klee, l’artista siciliano lavora di geometria e pennello per rendere visibile l’invisibile.


Rendere visibile (e demistificare) la copertura dell’ordine discorsivo-simbolico dell’appiattimento, quello spacciato per vero dalle forme dell’ordine del “padrone” e dal suo regime consumistico; è l’invisibile del vero (occultato), che occupa la tensione artistica del nostro pittore siciliano – Giacomo Cuttone –, e di cui la sua produzione è sintomatica, specie quella dell’ultimo periodo.

Esemplari in quest’ottica sono tutti i lavori del ciclo afgano-talebano, facenti seguito alla guerra contro il terrorismo (addebitato al mondo musulmano) e alle violenze delle guerre cosiddette umanitarie e infinite, nonché scatenate, pure, contro il popolo di colore migrante per fame, povertà, persecuzione o ad altre motivazioni di dominio, potere e controllo dettate dagli assetti della geografia politica del XXI secolo.

Il linguaggio pittorico di Giacomo Cuttone così non abbandona mai la mediazione simbolico-critica e il contatto con la realtà degli eventi, i suoi livelli e le sue lacerazioni; e lì dove molta pittura, con la complicità di molta critica in fuga dai contesti reali, sembra esercitarsi come privilegio dell’in-forme imponderabile, l’artista siciliano invece lavora dentro le trasformazioni segno-simboliche andando a caccia dei sintomi denudanti. È quella direzione sintomatica che ci incammina verso quella forma/immagine dell’innesto che ci piace chiamare dell’allegoria differenziale. E il nostro pittore ci sembra che lo faccia con consapevolezza semantico-politica critica oltre che, e prima di tutto, artistica.

Anche quando si è provato nella ricerca astratta – come nel caso dell’attacco terroristico (dell’11 settembre 2001) ad alcuni dei simboli più chiari – le Torri, il World Trade Center e il Pentagono – del potere americano –, la figurazione pittorica di Cuttone ha cercato sempre una forma che realizzasse la sottrazione del concreto mascherato in espressività creative rivelatrici, modulando a fondo tinte estetico-conoscitive con cromatismi lirici affidati all’articolazione del/i colore/i o alla geometria viva del classico contrasto bianco-e-nero (ombra/luce).

Stesso procedimento, ci sembra, connoti, come già detto (altre volte), le sue note chine talebane. Lavori, quest’ultimi, che nella strutturazione grafica hanno utilizzato anche versi di testi poetici in sintonia, e come ulteriore elemento pittorico sintonico, prima che verbale e sonoro.

Le chine del nostro pittore, che miscelano poesia e pittura, ci dicono del musulmano visto dall’Occidente, o dell’alieno che si mostra nella sua irriducibilità di cultura, abitudini, comportamenti e relative fogge espositive che lo determinano come l’“Altro”. L’estraneo non assimilabile e sfuggente a certe coordinate del riconoscimento del mondo civilizzato europeo. È il caso (anche) della china dell’occhio del medico talebano medusizzante (dallo sguardo sporgente), e circondato dal bianco/vuoto dell’incavo pupillare appartenente a una paziente con burka (piuttosto intuita e presupposta che appariscente).
Il medico talebano
 L’impegno del fare pittorico di Cuttone, che segue il tracciato grafico dei netti chiaroscuri e quello degli intrecci del colore, ora accentuati e ora sfumati, ora tra confini e demarcazioni, è sempre dunque un procedere tagliente e un marcare che, secondo noi, lavora anche nella direzione della dinamica espressionista (e allegorizzante).


Un espressionismo, però, la cui soggettività po(i)etica non va confusa con il grido della retorica vaporosa o della lacerazione tutta soggettiva. E qui l’amalgama materico del colore, atto a sottolineare aspettative e conflittualità (non sempre rassicuranti e attanaglianti la nostra epoca), presentifica i drammi dell’erranza dei migranti e dei sans papiers.

Sono le tele che imbarcano le nostalgie e le attese dei viaggiatori della povertà globale che, clandestini nell’Europa della libera circolazione delle merci e dei capitali, sulle carrette del mare dei trafficanti di esseri umani, o isolati e rinchiusi nei Cei (Centri d’identificazione e espulsione) del mare nel Mediterraneo, cercano un approdo provvisorio mentre vivono con il pensiero e l’anima appesi all’albero del ritorno ad Itaca.

Ricordiamo che un’opera di questo ciclo – “L’isola non è arrivo 2” – fronteggia la copertina del nostro ultimo libro di poesia (Ero(s)diade/La binaria dell’asiento (2010). Delle altre, in particolare, indichiamo “Con il mare negli occhi”, “Vento triste”, “Orizzonte obliquo”, “Voli di speranza” e “Sognando Itaca”.
Vento triste
Giacomo Cuttone è un pittore che lavora l’estetica delle immagini con realismo, crediamo, poetico. Un gesto e un atto di po(i)esis che deroga dalla sintassi dell’omogeneizzazione del consenso, della realtà data e occupata dalla identità delle cose con le immagini di ‘sintesi’. Un fare artistico che si rapporta con un taglio co-est-etico dell’alterazione/dissenso dell’eterotopia – scarto e distanza –, e che, rispetto alla falsa utopia della globalizzazione omologata, misura frontalmente e criticamente la percezione sensibile manipolata dalla sublimazione sedante dei consumi delle immagini d’epoca ideologizzate e sottoposte (pure) all’estetizzazione digitalizzata. Una logica, quest’ultima, perversa cui non sfugge l’archivio dello stesso immaginario, il cui patrimonio si vorrebbe unicamente subordinato a rivisitazioni conciliative con la realtà politico-culturale del presente. Il tempo esistenziale cioè racchiuso nella monotonia del monocorde emozionale spoliticizzato, e che, tuttavia e fortunatamente, non è una rete temporale che ingabbia tutti. Un tempo cioè prevalentemente occupato dal biopotere e dal suo linguaggio fatto di assoluta e infinita fluttuante mercificazione (compresi i desideri, gli affetti e le speranze).


Una mercificazione che educa a scambiare i simulacri per verità e la realtà con la felicità istantanea dell’irreale patinato e consumato come magica identificazione allucinogena. Ma l’opera pittorica di Cuttone è controvoce, e i lineamenti complessi delle sue raffigurazioni artistiche ci suggeriscono tutt’altro che un invito all’acquiescenza.

La tristezza per la partenza dalla propria terra, visualizzata in Vento triste, la nostalgia di L’isola non è arrivo 2 e Sognando Itaca – il ritorno dall’esilio verso casa e i propri affetti – la speranza e l’incertezza che a un tempo si possono leggere nella tela Con il mare negli occhi, sono infatti il controcanto di quella allegoria differenziale che segna il pensiero pittorico degli ultimi suoi lavori.

Un neo-espressionismo poetico materiale – ci permettiamo questa accezione categorizzante – è quello che il pittore mette avanti e usa come controcanto e voce di dissenso; una ribellione composta, quanto irrevocabile, dei corpi esposti alle intemperie della storia violentata dai rapporti di forza ineguali. Così le vie, l’andare e il ritornare, di questa testualità grafico-pittorica dell’artista siciliano, che testimonia della realtà dolorosa dei conflitti, sono più che un segno pittorico fine a se stesso. Infatti non rinuncia a scavare fra le rovine del tempo e trovarvi delle soglie che aprono spiragli di altre possibilità semantiche e di valore.

Quaranta di febbre
Sono voci che urlano anche con il silenzio e le pieghe corporee modellate nelle fattezze figurative, il reso visibile. Sono la denuncia della nudità del “re”; il segno inconfondibile di un’azione oppositiva – cui l’arte non può sottrarsi – all’omologazione dei mondi e dei significati che domina il quotidiano del senso comune e gli stili di vita dei cortili di casa tanto cari all’ideologia dominante dell’impoverimento perpetuo.



Biografia
Giacomo Cuttone nasce a Marsala il 7 gennaio del 1958. Compie gli studi presso il Liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti di Palermo. Partecipa alla vita artistica dal 1972 esponendo, in numerose collettive a Palermo, Mazara del Vallo, Petrosino, Trapani, Marsala, Locogrande, Reggio Calabria, Motta S. Giovanni, Paceco, Vescovato, Siracusa, Alcamo, Castelvetrano-Selinunte, Salemi, Zen/Palermo, Milano, Nova Milanese, Campobello di Mazara-Cave di Cusa, Santhià, Roma, Pisa.

Ha realizzato mostre personali a Petrosino, Marsala, Mazara del Vallo, Racalmuto, Brescia, Novi Ligure, Salerno, Firenze, Paceco.
Ha illustrato diversi libri di poesie e riviste letterarie.
E’ coautore di Compagni di strada caminando (2003), Ed. Riccardi e ‘Elmotell blues (2007), Navarra Editore; due testi collettivi di poesia a montaggio intersemiotico (con la versione CD-ROM). Negli anni Ottanta, insieme al Poeta Antonino Contiliano, nell’ambito della promozione culturale del Comune di Petrosino, ha dato vita ad una Rassegna d’Arte Contemporanea e ad un Premio di Poesia.
Si sono interessati del suo lavoro i critici: Gonzalo Alvarez Garcia, Giuseppe Biati, Rolando Certa, Antonino Contiliano, Vito Gallo, Umberto Mario Garro, Celeste Giaramidaro, Salvatore Giubilato, Francesca Incandela, Salvatore Maurici, Egidio Mascherini, Italo Perna, Vincenzo Piccione, Luciano Spiazzi, Mario Tumbiolo, Salvatore Vecchio, Attilio L. Vinci, Piero Di Giorgi, Abby Jones, Luciana Argentino, Rosellina Accardi, Liliana Ingenito, Gianni Di Matteo, Franca Alaimo
Dal 2001 al 2005 è stato componente del C. d. A. dell’Ente Mostra di Pittura del Comune di Petrosino.
Vive a Mazara del Vallo ed è titolare di cattedra di Arte e Immagine nella Scuola Secondaria di I Grado “Giuseppe Grassa”.


Giacomo Cuttone

Nessun commento: